Nè rottura nè chiarimento fra Draghi e Conte, che reclama tuttavia “forti segni di discontinuità”

Dopo più di un’ora di incontro con Draghi a Palazzo Chigi Giuseppe Conte si è presentato ai giornalisti per riesumare formule e linguaggi da cosiddetta prima Repubblica, già riapparsi d’altronde per iniziativa d’altri in questi anni che pure dovevano essere tanto diversi. Egli ha chiesto, per esempio, “forti segni di discontinuità” nell’azione di governo per garantire davvero e non solo annunciare la disponibilità del MoVimento 5 Stelle a farne parte. Non ricordo più quante edizioni del centro-sinistra prima di Aldo Moro e poi di Mariano Rumor hanno rincorso discontinuità reclamate dai socialisti e da altri alleati della D.

Discontinuità nel 2019 fu chiesta anche dal Pd allora guidato da Nicola Zingaretti per sostituire la Lega nel governo, finita l’esperienza gialloverde d’inizio della legislatura in corso. Discontinuità significava innanzitutto cambiare presidente del Consiglio, nella ragionevole presunzione che quello uscente non fosse tanto disinvolto da poter stare a Palazzo Chigi cambiando così radicalmente maggioranza. Ma Conte non ne volle sapere e rimase al suo posto con i grillini schierati al suo fianco, compreso Luigi Di Maio. Che pure avrebbe potuto prenderne il posto, e lo aveva rifiutato quando ad offrirglielo era stato Salvini per riesumare la maggioranza gialloverde che aveva fatto saltare nella presunzione di ottenere le elezioni anticipate e di uscirne con i “pieni poteri”.

La discontinuità ora reclamata da Conte a Draghi, lasciandolo ancora- bontà sua- a Palazzo Chigi, dovrebbe essere “forte” quanto è il “disagio politico” nel quale il presidente del Consiglio avrebbe messo il MoVimento 5 Stelle, o ciò che ne è rimasto dopo la scissione di Di Maio. Dietro alla quale Conte ha visto lo zampino di Draghi, le cui smentite non sono servite a dissipare i suoi sospetti. Così come le smentite di Beppe Grillo non hanno dissipato non il sospetto ma la convinzione di Conte che Draghi -sempre lui- abbia tentato di convincere il “garante” del MoVimento 5 Stelle a “farlo fuori”. Ma con Grillo, che pure aveva rivelato quei tentativi parlando con un bel pò di amici poi apparsigli dei “traditori” in una rivisitazione semiletteraria dell’Inferno di Dante, l’ex presidente del Consiglio non ha ritenuto di aprire alcuna polemica dopo la smentita. Evidentemente il garante -per usare un aggettivo che piace a Conte- è ancora troppo forte nel Movimento, o -ripeto- in quel che ne resta, per essere da lui affrontato. 

Mario Draghi

Ma torniamo all’incontro con Draghi. Il contenzioso del suo predecessore rimane aperto anche dopo l’incontro. Non si è avuta la rottura che qualcuno forse si aspettava fra i pentastellati, ma neppure il completo chiarimento e rasserenamento che sarebbero stati utili al governo in questa stagione politica in cui le emergenze si accavallano anziché diminuire di numero e di intensità. Nè Draghi, con una serietà che una volta tanto gli ha riconosciuto lo stesso Conte, immagino con quanto stupore o dispetto di chi lo rimpiange a Palazzo Chigi un  giorno sì e l’altro pure, ha voluto fare finta di nulla per quieto vivere. Si è preso “un pò di tempo” -ha detto lo stesso predecessore- per esaminare le richieste di “discontinuità” presentategli con tanto di documento. 

Si continuerà insomma a navigare a vista, in attesa del prossimo incidente, o salto d’umore o ultimatum. Anzi, penultimatum di Conte. Parola di Grillo: sempre lui, il vero problema -come dicono sempre più numerosi gli osservatori politici- dell’avvocato rimasto senza popolo.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Gli accordi con Erdogan aumentano il contenzioso delle 5 Stelle con Draghi

Titolo di Repubblica

  Più che dei veti, come ha preferito chiamarla la Repubblica, è la battaglia dei voti quella scoppiata nel governo, nella maggioranza e fuori dall’uno e dall’altra: voti peraltro immaginari pensando al rinnovo delle Camere, ordinario o anticipato che possa rivelarsi. Ordinario, naturalmente, nelle speranze di Giuseppe Conte e di Matteo Salvini, che chiudono la legislatura praticamente insieme come l’avevano cominciata nel 2018, convinti che   una campagna elettorale abbastanza lunga -quasi un anno- possa aiutarli a fermare il declino o, rispettivamente, a recuperare un pò di quel che hanno perduto. Anticipato il più possibile -il rinnovo delle Camere- per chi come Giorgia Meloni è stata sempre all’opposizione ed è per questo cresciuta tanto da essersi classificata in testa con i suoi “fratelli d’Italia” nella graduatoria dei sondaggi. Ma anche per Enrico Letta, il segretario del Pd, che non a caso è diventato spesso l’interfaccia della Meloni, ed ha l’interesse sempre meno nascosto a farla finita il più presto con questa legislatura da vertigini.

Ciò che il segretario del Pd si è trattenuto dal dire per ragioni estreme di diplomazia lo ha fatto spiegare dal ministro della cultura Dario Franceschini, centrale in ogni maggioranza al Nazareno: una crisi porterebbe non solo ad elezioni anticipate ma anche alla fine del cosiddetto o presunto campo largo con le 5 Stelle. Che senza un’intesa elettorale col Pd per la distribuzione dei seggi nei collegi nominali uscirebbero dalle urne con prefissi telefonici: davvero polvere di stelle.

Il titolo del Riformista
La vignetta del Fatto Quotidiano

        L’ansia da prestazione, diciamo così, alla vigilia dell’incontro fra Draghi e Conte rinviato da lunedì ad oggi a causa della tragedia della Marmolada, ma anche della missione del presidente del Consiglio in Turchia, si è avvertita sotto le cinque stelle a tal punto che il giornale di sostanziale riferimento com’è Il Fatto Quotidiano, nella parte abitualmente più disinibita della sua prima pagina che è quella della vignetta, ha rappresentato la voglia vicendevole del presidente del Consiglio e del predecessore di “togliersi dal cazzo” l’altro. Chi ci riuscirà? Il Riformista si è augurato Draghi titolando sul “mercoledì nero” di Conte. Si vedrà. 

L’editoriale del Fatto Quotidiano

Certo è che sempre sotto le cinque stelle, e sempre sul giornale che ne riflette di più gli umori più profondi, il presidente del Consiglio in carica viene rappresentato come peggio non si potrebbe. La sua missione in Turchia, con mezzo governo al seguito, per una serie di accordi con Erdogan, il “dittatore” lamentato l’anno scorso dallo stesso Draghi con l’avvertenza realistica di una cooperazione obbligatoria, ha fatto scrivere a Marco Travaglio di “scena vomitevole”, di “mani insanguinate” strette con troppa disinvoltura e della “speranza che lor signori non oseranno mai più tenere lezioni su aggressori e aggrediti, liberaldemocrazie e dittature, invii di armi per difendere i valori occidentali, il diritto internazionale, autodeterminazione dei popoli e altri capolavori di ipocrisia”. 

Marco Travaglio sulla guerra in Ucraina

La lingua batte insomma dove il dente duole: la guerra in Ucraina e il tentativo della Nato e della Commissione Europea di non darla vinta all’aggressore Putin. E questo “solo” per favorire “i porci comodi degli Usa, che rifilano all’Europa le loro merci avariate, l’allontanano dai mercati russo e cinese, la dissanguano con una lunga guerra per procura e la riassorbono a sé in una Nato di nuovo americanocentrica”. Che è stata appena allargata, tra altri “vomiti” presumibili di Travaglio, alla Finlandia e Svezia uscite da un neutralismo che le esponeva alle tentazioni di un Putin ispirato da Pietro il Grande.

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