Il rinvio di Draghi alle Camere equivale ai tempi supplementari della crisi

La votazione di fiducia al Senato

Il previsto rinvio del governo alle Camere – dopo le dimissioni altrettanto previste di Mario Draghi di fronte alla fiducia negatagli dai grillini al Senato non partecipando alla votazione conclusiva della conversione in legge del decreto sugli aiuti alle famiglie e alle imprese-  è stato visto da qualcuno come un “congelamento” della crisi. Il che sottintende forse la speranza che nei cinque giorni fra le dimissioni e il ritorno di Draghi in Parlamento, mercoledì prossimo, si scongeli il suo malumore così abrasivamente espresso in Consiglio dei Ministri con l’annuncio, testuale, che “la maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più”. O “è venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”. 

Dal Fatto Quotidiano

In tempi in cui si sciolgono i ghiacciai -ma con quali effetti si è appena visto sulla Marmolada- c’è chi ha evidentemente pensato che possa sbollire anche la presunta rabbia del presidente del Consiglio, abituato a comandare -secondo la rappresentazione dei suoi avversari- e perciò preso alla sprovvista dall’ultima versione di Giuseppe Conte: “radicale”, in senso estremistico. Che il sociologo Domenico De Masi, arrivato sulle prime pagine dei giornali gridando ai quattro venti la presunta confidenza ricevuta da Beppe Grillo su pressioni di Draghi per “far fuori” il presidente del MoVimento 5 Stelle, si augura oggi sul Fatto Quotidiano -e dove, sennò?- sia la posizione non solo ultima ma definitiva dell’ex presidente del Consiglio. 

Più che di congelamento della crisi, parlerei -a proposito dell’iniziativa presa dal capo dello Stato- di un ricorso ai tempi supplementari per chiudere con un risultato che non sia un pareggio la partita giocata contro Draghi da Conte, appunto. Che peraltro detta da fuori, non essendo né un deputato né un senatore, la linea ai parlamentari pentastellati non passati, o non ancora, con Luigi  Di Maio. Ma siamo poi sicuri che l’ex presidente del Consiglio detti davvero la linea, e non si limiti invece a recepire quella malmostosa di gruppi ormai allo sbando, dove prevale l’illusione che ci sia ancora tempo per una lunga conclusione della legislatura in cui poter giocare all’opposizione per fermare l’emorragia elettorale o addirittura ricevere qualche provvidenziale trasfusione?

Vignetta del Fatto Quotidiano
Vignetta del Secolo XIX

A dispetto, tuttavia, di queste forti spinte alla “radicalità”, per rimanere nel linguaggio di De Masi, sono già arrivate voci e disponibilità ad una conferma della fiducia da parte dei grillini, forse con la riserva di uscire dal governo in un altro momento, visto che ora un disimpegno rischia non di attenuare ma di aumentare la impopolarità del MoVimento 5 Stelle. La ciliegina sulla torta gliel’hanno appena messa a Mosca applaudendo alle dimissioni di Draghi, pur respinte da Mattarella: un Draghi considerato evidentemente “bollito” anche al Cremlino, e non solo sulla prima pagina del Fatto Quotidiano nella vignetta di Riccardo Mannelli. 

Se c’è comunque una volontà, o mezza volontà, di approfittare dei tempi supplementari ottenuti dal presidente della Repubblica per procrastinare la rottura, occorre che i grillini in Parlamento adottino un linguaggio un pò meno greve e provocatorio di quello abituale e  appena ripetuto al Senato. Dove Draghi ha trovato nelle parole dei pentastellati il segno della fine della maggioranza.

Conte ha voluto e ottenuto il riconoscimento dell’essenzialità del suo movimento anche dopo la scissione di Di Maio, tanto da fare escludere dall’interessato un cosiddetto Draghi bis senza i grillini al governo? Ed ora -è il succo del ragionamento del presidente del Consiglio- si dimostri all’altezza delle sue responsabilità. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Le ragioni posticce della crisi più pazza del mondo provocata da Conte

Titolo del Dubbio

In una  visione retrospettiva della crisi di governo, senza volere risalire all’anno scorso, quando Giuseppe Conte si sentì ingiustamente estromesso da Palazzo Chigi, il momento preciso in cui il presidente del MoVimento 5 Stelle ha acceso, volente o nolente, l’incendio in corso è quello della scissione di Luigi Di Maio, attribuendone la regìa, o qualcosa del genere, a Mario Draghi. Un sospetto, questo, che Conte ha sovrapposto allo spazio, lasciato per un pò anche dallo stesso Grillo, alle polemiche sulle presunte pressioni esercitate sempre da Draghi sul garante del movimento per “farne fuori” il presidente.  

Tutto il resto -compresa la richiesta di una “forte discontinuità” e di un “cambio di passo” nell’azione di governo- è venuto dopo. E a me è francamente apparso posticcio in tutti i sensi, come un tentativo di dare alla vertenza politica un contenuto diverso, sul piano propagandistico più spendibile di una crisi di nervi, o qualcosa di simile. 

Quando neppure la smentita di Grillo – e la sua rilettura della Divina Commedia di Dante Alighieri per mettere nel girone infernale dei traditori quanti gli avevano attribuito confidenze e quant’altro sulle pressioni da Palazzo Chigi contro un Conte “inadeguato”- ha tranquillizzato il suo predecessore, Draghi ha escluso di poter guidare un governo senza la partecipazione -ma convinta- dei grillini. Se non lo avesse fatto, o si fosse mostrato minimamente disponibile al cosiddetto Draghi bis senza le 5 Stelle, o col solo loro appoggio esterno, egli avrebbe ridotto la credibilità della smentita opposta alla regia della scissione attribuitagli. 

Mario Draghi

Più che un generoso riconoscimento della importanza, essenzialità e quant’altro del movimento pentastellato pur abbandonato da una sessantina di parlamentari, e privo della maggioranza relativa dei seggi parlamentari conquistata nelle elezioni politiche del 2018, Draghi ha fatto col suo rifiuto di guidare un governo senza i grillini un’operazione politica di avveduto incastro di Conte alle sue responsabilità. Ha cioè tolto al suo predecessore ogni pretesto di sospettarlo sleale. E ciò anche a costo -va aggiunto- di infliggere alla scissione di Luigi Di Maio un colpo forse addirittura fatale, come la dimostrazione della sua inutilità ai fini della stabilità e della chiarezza della maggioranza su un terreno peraltro così delicato com’è quello della politica estera dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Un terreno, quello della politica estera e della guerra scatenata da Putin, su cui Di Maio aveva avvertito e denunciato con anticipo il pericolo -ma qualcosa anche più di un pericolo- che Conte perseguisse il famoso “disallineamento” dell’Italia dall’Europa e dalla Nato interrompendo la partecipazione agli aiuti militari all’Ucraina. 

Luigi Di Maio

Bisogna riconoscere con obiettività che dal momento in cui Draghi ha riconosciuto  come più non si poteva l’importanza o essenzialità di ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle dopo la scissione, Di Maio si è trovato nella condizione non certo incoraggiante di un suo predecessore alla Farnesina: Angelino Alfano. Che nella scorsa legislatura da “diversamente berlusconiano” – ricordate? -aiutò prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi a governare senza Silvio Berlusconi, passato all’opposizione dopo l’estromissione dal Senato a causa di una controversa ma definitiva condanna per frode fiscale, prenotando però solo il proprio  pensionamento politico. Ora Alfano è solo un ex col suo -ricordate anche questo ?- “nuovo centro destra”. Di politico, in senso però più culturale o mussale che pratico, egli ha solo la presidenza della Fondazione Alcide De Gasperi. Cui deve -credo- l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica conferitagli di recente e consegnatagli personalmente dal capo dello Stato. 

Più particolarmente nel nostro caso,  Di Maio rischia, con la possibile accelerazione elettorale derivante dalla crisi, di non avere più neppure il tempo di predisporre materialmente per il suo progetto “Insieme per il futuro” la rete di collegamento con sindaci e liste civiche che lo ha già visto impegnato in un incontro, fra gli altri, con Beppe Sala a Milano. 

Ma se il ministro degli Esteri non avrà il tempo di tessere il suo progetto con i sindaci, o con l’affollata area di centro, neppure Conte avrà il tempo di quella specie di rigenerazione politica all’opposizione per la quale premono in tanti su di lui, in ciò che resta del suo movimento, nel tentativo o nella illusione di fermare la discesa elettorale, o addirittura di invertire la tendenza. L’ex presidente del Consiglio si è insomma infilato nel più pazzo vicolo cieco, “coerentemente” -come ha detto per spiegare il rifiuto della fiducia al Senato- con la legislatura, anch’essa più pazza del mondo, cominciata quattro anni fa con la vittoria elettorale dei grillini e col suo davvero imprevisto approdo a Palazzo Chigi.

Pubblicato sul Dubbio

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