Tragicommedia al Senato: Berlusconi e Salvini negano come i grillini la fiducia a Draghi

La verifica parlamentare si è conclusa al Senato come più sorprendentemente non si poteva. Con Silvio Berlusconi che, pur di confermare il suo rapporto privilegiato con l’insofferente Matteo Salvini nel centrodestra, ha finito per allinearsi a Giuseppe Conte: entrambi impegnati fuori dal Parlamento, non essendo né deputai né senatori, a guidare i loro partiti, o movimenti. Sia i grillini sia i forzisti hanno negato la fiducia al governo, dove pure sono rappresentati con tanto di ministri e di sottosegretari, almeno fino al momento in cui scrivo.

I grillini hanno rifiutato la fiducia volendo “togliere il disturbo”,come ha spiegato la capogruppo in un intervento assai critico verso il presidente del Consiglio.

I forzisti, al seguito dei leghisti, hanno rifiutato la fiducia rimproverando a Draghi di non avere voluto fare a meno dei grillini disponendosi alla formazione di un nuovo governo, sollecitata da un loro documento. Accusa, questa, che è stata clamorosa smentita dal ritiro dei grillini dalla maggioranza.

La contraddizione è stata con molta efficacia oratoria sottolineata dal senatore forzista Andrea Cangini, che ha confermato la fiducia al governo. La ministra Maiastella Gelmini, deputata, ha lasciato immediatamente Forza Italia litigando in pubblico con Licia Ronzulli, la più sretta collaboratrice ormai di Berlusconi.

I forzisti e i leghisti hanno tradotto il loro rifiuto non partecipando alla votazione. I grillini, per non fare mancare a questo punto il numero legale e vanificare quindi lo scrutinio, vi hanno invece partecipato rispondendo all’appello nominale col rifiuto appunto di rispondere sì o no.

E’ stato un epilogo da vero teatrino della politica: quello tanto vituperato da Beppe Grillo e Silvio Berlusconi con una sintonia “populista” paradossalmente sottolineata con un certo compiacimento pochi giorni fa in una intervista al Corriere della Sera da Confalonieri, l’amico più stretto e fedele -di none e di fatto- dell’ex presidente del Consiglio.

Ripreso da http://www.startmag.it

I grillini negano l’applauso a Draghi al Senato dopo il discorso sulla verifica

Giuseppe Conte

Nel discorso al Senato per la verifica chiesta dal presidente della Repubblica respingendone le dimissioni nella scorsa settimana, Mario Draghi ha fatto molto poco, o niente, per invogliare i grillini a restituirgli la fiducia negatagli nella stessa aula disertando la votazione conclusiva del processo parlamentare di conversione del decreto legge relativo agli aiuti corposi a imprese e famiglie danneggiate dalla crisi. Egli, per esempio, non ha nemmeno citato il documento di nove punti consegnatogli personalmente a Palazzo Chigi dal presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte per chiedergli “forti segni di discontinuità”, di “cambiamento di passo” e di riparazione ai presunti torti inferti a quella parte politica, procurandole “disagio” altrettanto forte. 

Il presidente del Consiglio ha elencato anche nel dettaglio gli interventi propostisi nella eventuale prosecuzione dell’attività di governo, se si riuscirà nella discussione sulle sue comunicazioni a ricostituire il “patto di fiducia” venuto meno nei giorni e anche nelle scorse settimane. In questi interventi il MoVimento 5 Stelle può trovare punti di convergenza o di divergenza dalle sue richieste, e trarne le conseguenze, nel dibattito  -ripeto- e nel voto finale, se davvero vi si arriverà, prima al Senato e poi alla Camera. 

Una risposta il partito di Conte, come lo chiama un pò sprezzantemente Di Maio dopo la scissione, la dovrà dare -ha ricordato ruvidamente Draghi non tanto al governo quanto “agli italiani” così numerosi e spontanei nella mobilitazione di questi giorni contro la crisi: duemila sindaci, associazioni e singoli. 

Ai toni e alla struttura polemica del discorso di Draghi, dopo tutte le libertà di comportamento presesi in questi ultimi tempi, negando o accordando al governo fiduce “di facciata”, per niente convinte, e contraddette da solidarietà a proteste anche di piazza contro il governo, i senatori pentastellati hanno risposto negando l’applauso finale. Nè associandosi agli applausi intermedi raccolti dal presidente del Consiglio, specialmente nei passaggi del discorso  sulla guerra in Ucraina, in cui erano chiare le allusioni polemiche ai grillini contestatori degli aiuti militari agli aggrediti dalla Russia di Putin. 

A dire il vero, anche un bel pò di leghisti hanno rifiutato l’applauso finale a Draghi, che nel suo discorso aveva alluso chiaramente anche a loro criticando i comportamenti concreti delle forze della maggioranza. Ma è improbabile che il partito di Salvini arrivi a negare anche la fiducia, come probabilmente accadrà per almeno una parte di ciò che resta del MoVimento 5 Stelle. 

Draghi ascende o discende, fra appelli, suppliche, timori e proteste, secondo i casi

Titolo di Avvenire
Titolo del Mattino

Il “giorno del giudizio”, come l’ha chiamato Il Mattino, o “della verità”, secondo Avvenire, si è aperto -prima ancora che il presidente del Consiglio si presentasse al Senato per la verifica chiesta dal presidente della Repubblica dopo le dimissioni respinte nella scorsa settimana- con la pubblicazione di un beffardo santino di Draghi sul giornale che più riflette o addirittura forma gli umori di Giuseppe Conte. Il quale è poi all’origine di questa crisi per il tentativo di scaricare sul governo, da lui del resto mai amato per il semplice fatto di averlo allontanato da Palazzo Chigi, le tensioni interne al MoVimento 5 Stelle. Dove peraltro la clamorosa e consistente scissione di Luigi Di Maio non è per niente finita. 

Titolo del Fatto Quotidiano

Il beffardo santino lo ha pubblicato naturalmente Il Fatto Quotidiano, che propone ai lettori un Draghi con aureola non in ascensione al cielo ma in discesa verso la terra, spinto, oltre che dal Padre, dai “padroni” d’Italia e del mondo terrorizzati dall’idea di non saperlo più alla guida del governo: industriali, sindaci tornati alla funzione di “cacicchi” loro attribuita a suo tempo da Massimo D’Alema, banchieri, fabbricanti d’armi, Casa Bianca, Commissione Europea eccetera eccetera. Tutti desiderosi di un ritorno di Draghi, e non solo per gestire la transizione di una eventuale campagna elettorale anticipata, o accorciata, visto che sempre campagna elettorale sarebbe, anche se le Camere dovessero sopravvivere pure a questa crisi e arrivare all’epilogo ordinario dell’anno prossimo. 

Dal Fatto Quotidiano

In un sussulto di ironia, anzi di sarcasmo, il direttore del Fatto Quotidiano si è abbandonato alla “cattiveria” di giornata scrivendo che “praticamente, a non volere Draghi premier, sono rimasti solo Conte e Draghi stesso”. E c’è paradossalmente del vero anche in questo, con le “tasche piene” confessate dal presidente del Consiglio prima di dimettersi, e ulteriormente riempite ieri dalle ultime manovre, manovrette, minacce, proteste e suppliche, da sinistra e da destra, innescate da un incontro chiesto a Draghi e ottenuto dal segretario del Pd Enrico Letta. Che fra tutti è stato  il più sofferente all’idea di perdere una interlocuzione, diciamo così, con Conte pur non più “punto di riferimento dei progressisti”, come lo aveva imprudentemente promosso Nicola Zingaretti quando era al Nazareno. E come lo stesso Zingaretti ha detto recentemente di non considerarlo più. 

Oltre a ricevere Enrico Letta e, di conseguenza, per le proteste dirette e telefoniche di Silvio Berlusconi, da una delegazione del centrodestra “di governo”, Draghi ha sentito l’opportunità di consultarsi con Mattarella prima di affrontare il passaggio della verifica. 

Marzio Breda sul Corriere della Sera

A leggere il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, sempre consigliabile in queste circostanze perché di casa più di ogni altro sul colle più alto di Roma, il capo dello Stato ha trovato Draghi “un pò meno irremovibile e rigido nei suoi propositi di una settimana fa, quando voleva mollare tutto subito, senza neppure passare per il Parlamento”. “Stavolta almeno -ha scritto Breda- ha elencato i pro e i contro di una propria permanenza a Palazzo Chigi”, anche senza -si deve presumere- la fiducia di quella che potrebbe risultare alla fine la consistenza  striminzita di un non più imprenscindibile MoVimento 5 Stelle, o del “partito di Conte”, come lo declassa lo scissionista Di Maio ogni volta che ne parla. 

Ancora Marzio Breda sul Corriere della Sera

“Già un passo avanti, insomma”, ha commentato Breda. Il quale tuttavia ha avvertito a conclusione della sua scrupolosa corrispondenza che, prevedendo o temendo il peggio, non importa per colpa di chi, al Quirinale “è già pronto il decreto di scioglimento, con la data del voto: il 2 ottobre”.  Ma la data delle elezioni, in verità, spetterebbe fissarla al governo, non al presidente della Repubblica. Evidentemente Mattarella e Draghi si sono spinti già in avanti valutando insieme la situazione.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quella volta che Scalfaro non vedeva l’ora di sciogliere le Camere che lo avevano eletto

Marzio Breda sul Corriere della Sera di ieri
Titolo del Dubbio

Quella cartellina, reale o metaforica che sia, sulla scrivania di Sergio Mattarella che s’intravvede nella corrispondenza di Marzio Breda dal Quirinale per il Corriere della Sera, relativa al precedente dello scioglimento anticipato delle Camere nel 1994, ad opera di Oscar Luigi Scalfaro, dev’essere un incubo per chi teme l’epilogo della legislatura. O un motivo di speranza per chi l’auspica come conclusione della odierna verifica parlamentare chiesta dal capo dello Stato respingendo la settimana scorsa le dimissioni di Mario Draghi e rinviandolo alle Camere:  prima al Senato e poi a Montecitorio, come hanno poi concordato i presidenti delle due assemblee. E come non potevano non decidere dopo che Mattarella aveva indicato esplicitamente la necessità di valutare quanto era accaduto proprio al Senato con la votazione di fiducia -disertata polemicamente dai grillini- sulla conversione in legge del decreto per gli aiuti alle famiglie e alle imprese in difficoltà. 

Giorgio Napolitano
Scalfaro e Ciampi nel 1994

Il quadro politico e istituzionale, ma  più politico che istituzionale, del 1994 assomiglia a quello attuale solo per il comune stato di delegittimazione delle Camere. Per tutto il resto le situazioni sono nettamente diverse e potrebbero anche indurre Mattarella a non seguire l’esempio del suo predecessore e collega di partito, che pur in presenza di un governo non sfiduciato -quello presieduto da Carlo Azeglio Ciampi- interruppe la legislatura senza neppure ricorrere al rito delle consultazioni dei partiti e gruppi parlamentari. Scalfaro si limitò a “sentire”, come prescritto dalla Costituzione, i presidenti delle Camere: Giorgio Napolitano, che a Montecitorio aveva maturato la convinzione che lo scioglimento anticipato fosse opportuno, e Giovanni Spadolini che al Senato si era fatta un’idea diversa. 

Giovanni Spadolini

A me risultava che oltre a farsela, Spadolini avesse espressa la sua idea difforme al presidente della Repubblica senza convincerlo. Ma una volta che lo scrissi il puntigliosissimo Scalfaro me la smentì privatamente. Peccato che nel frattempo Spadolini fosse morto e non potesse confermare quello che personalmente mi aveva fatto capire. 

Le Camere sciolte nel 1994, per quanto elette meno di due anni prima, erano delegittimate innanzitutto per il gran numero di inquisiti e candidati alle manette, previa autorizzazione parlamentare, per finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione e quant’altro contestate soprattutto dalla Procura di Milano con l’indagine nota come “Mani pulite”. E “coscienze sporche”, aggiungevano polemicamente i pochi garantisti in servizio lamentando i metodi degli inquirenti e il senso prevalentemente unico delle loro iniziative sul piano politico. Ma erano delegittimate anche per l’intervenuto cambiamento della legge elettorale, essendo stato il sistema proporzionale praticamente demolito dal referendum del 1993. E sostituito con uno misto -per i due terzi maggioritario e un terzo ancora proporzionale- formulato da una legge di cui fu relatore a Montecitorio l’attuale presidente della Repubblica, battezzato in latino “Mattarellum” dal compianto Giovanni Sartori, Vanni per gli amici. 

          Per l’approvazione di una nuova legge  elettorale aveva premuto a viso aperto proprio Scalfaro, indicandola come traguardo di governo a Ciampi conferendogli l’incarico di presidente del Consiglio dopo il referendum e le dimissioni del primo governo di Giuliano Amato. Lo stesso Ciampi, scomodato dalla guida della Banca d’Italia, raccontò poi onestamente  in una intervista al Corriere della Sera di avere confessato al presidente della Repubblica la sua incompetenza in materia, sentendosi offrire come risposta la collaborazione degli uffici del Quirinale per supplirvi.

Pur eletto al vertice dello Stato dalle Camere uscite dalle urne solo nel 1992, sull’onda emotiva della strage di Capaci, che aveva azzerato tutte le candidature coltivate nei partiti per la successione al “picconatore” Francesco Cossiga, il nuovo presidente della Repubblica non vedeva l’ora di liberarsene: l’opposto di Mattarella, che delle Camere elette nel 2018 è stato un protettore forse sin troppo paziente, prima ancora che l’emergenza sanitaria della pandemia e quella economica e sociale collegata l’obbligassero un anno e mezzo fa ad allestire il governo eccezionalissimo di Mario Draghi, pur di non mandare gli italiani alle urne dopo il naufragio del secondo governo Conte, politicamente opposto al primo. 

Queste Camere, diversamente da quelle del 1994, non sono delegittimate da vicende giudiziarie, e da cappi sventolati nelle sue aule, né da una nuova legge elettorale. Lo sono invece per la riforma, fortemente voluta dai grillini e subìta dagli alleati di turno, che ne ha tagliato un terzo e più dei seggi parlamentari, per cui deputati e senatori uscenti si dibattono come tonni nelle reti della morte, e per la dissoluzione ormai del partito originariamente “centrale”, quello appunto dei grillini. Attorno al quale si sono fatte e disfatte le maggioranze di questa legislatura, anche quella del governo -eccezionale, ripeto- di Draghi. Cui è  capitato in questi giorni ciò che è mancato a tutti gli altri nella storia della Repubblica, anche a quelli storici davvero di Alcide De Gasperi, e della ricostruzione dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale: un coro di appelli di ogni tipo a restare. Essi hanno ricordato e ricordano un pò quelli levatesi alla fine dell’anno scorso per la conferma di Mattarella al Quirinale, alla scadenza del suo mandato.

Sergio Mattarella

Mattarella non ne voleva sapere, ma alla fine si rese disponibile. Forse oggi egli vorrebbe che Draghi, tra i fautori della sua rielezione, facesse lo stesso a Palazzo Chigi. Dove però non si è eletti per sette, lunghi anni, diventati quattordici per Mattarella, ma nominati, e condizionati dagli umori variabili di partiti, correnti e singoli leader, veri o presunti. 

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