Peppiniello Conte nella ritrovata missione di avvocato del popolo

A Napoli, dove la buonanima di Eduardo De Filippo ha fatto scuola con i diminuitivi dei nomi dei protagonisti e attori delle sue commedie, Giuseppe Conte si è sentito chiamare in piazza Peppiniello. Non ho capito bene se da una percettrice del reddito di cittadinanza, da una parente o da una ex esterna o precaria dell’Inps regolarizzata grazie ad un provvedimento risalente al suo ultimo governo. 

E Peppiniello, che fa rima, solo quella, col rivoltoso Masaniello datogli oggi sul Giornale dal direttore Augusto Minzolini, sentendosi ormai in quella città come a casa sua, più ancora che nella Volturara Appula da cui proviene, per via di tutti quei voti raccolti dal movimento grillino nelle ultime elezioni politiche, alla faccia del trombatissino scissionista Luigi Di Maio; Peppiniello, dicevo, si prende molto sul serio nella sua ritrovata missione di avvocato del popolo. Inteso naturalmente come il popolo degli ultimi, dei diseredati, dei veri disperati, non di quei pochi fottutissimi furbi che abusano del reddito di cittadinanza e lo sputtanano, fornendo alibi, pretesti e quant’altro alla “disumana” Giorgia Meloni per tagliarne la consistenza e via via abolirlo.

Dall’alto della popolarità guadagnatasi a Napoli, sia pure sulle orme della buonanima di Achille Lauro, che distribuiva il ben di Dio in ogni campagna elettorale, Conte ha dedicato poche, sprezzanti battute ai concorrenti di sinistra del Pd parlandone coi giornalisti sulla soglia di qualche bar, o alla cassa con una sfogliatella in mano. 

Il congresso del Pd? E che è un congresso quello che Enrico Letta ha messo in cantiere? Il gruppo dirigente del Nazareno? Ma è davvero un gruppo dirigente quello che ha lasciato la periferia  del partito nelle mani dei “potentati”? L’opposizione del Pd al governo Meloni? E che è un’opposizione quella di un partito che fa opposizione a se stesso, con tutte le correnti che ha, e in tutta la confusione in cui si trova da quando è nato assemblando i resti di vecchie formazioni politiche? 

Magari, saranno pure vere, realistiche alcune di queste lamentele, accuse e simili dell’ex presidente del Consiglio ma a sentirle o leggerle senza reagire sotto i soffitti del Nazareno, dopo tutti gli aiuti forniti a Peppiniello nella scorsa legislatura per farlo restare a Palazzo Chigi dalla primavera del 2018 a febbraio del 2021;  a sentirle  o leggerle, dicevo, sotto i soffitti del Nazareno senza reagire è uno spettacolo davvero avvilente. Al quale si è però deciso a reagire l’ex senatore, ex tesoriere, ex capogruppo al Senato Luigi Zanda. Almeno lui, togliendosi finalmente da una scarpa o da entrambe i sassolini finitivi quando gli toccò accordare la fiducia al secondo governo Conte. Cui era stato quanto meno tentato di preferire le elezioni anticipate, a costo anche di vederle vinte allora da Matteo Salvini. 

“Di Conte -è finalmente sbottato Zanda parlandone col Riformista, che non voleva sentirsi dire altro- non riesco a fidarmi politicamente. Mi sembra una personalità che ha fatto della disinvoltura politica la sua cifra principale. L’uomo che ha firmato i decreti sicurezza di Salvini e che ha taciuto quando Salvini chiedeva pieni poteri? Oppure l’uomo che ha cacciato Salvini dal governo mettendogli una mano sulla spalla in pieno Senato? Il Conte che aumentava consistentemente gli stanziamenti per gli armamenti? L’uomo che appoggiava l’invio di armi all’Ucraina oppure quello che ha fatto cadere Draghi proprio negandogli la fiducia sulle armi all’Ucraina?…..A me sembra che Conte sia attento principalmente alla sua fortuna politica. Lo abbiamo visto cercare il voto di Ciampolillo nella speranza di guidare un Conte tre e ora lo vediamo atteggiarsi a progressista alla ricerca di un suo spazio politico”. Peraltro, a vedere certe foto giunte ieri proprio da Napoli, scambiando per folle ciò che folle non erano davanti a lui in cappotto, scaldate a mala pena da qualche lampada.   

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it

Gerardo Bianco, l’irpino dc più irriducibile di Ciriaco De Mita

L’appena scomparso Gerardo Bianco, fra tutti gli uomini politici che ho conosciuto e frequentato, è stato insieme il più semplice e il più colto, il più inflessibile nei propri convincimenti e insieme il più umano.

Lo conobbi in Transatlantico, a Montecitorio, presentatomi da Mario Segni all’inizio del fenomeno dei peones democristiani, insofferenti al gioco delle correnti e per niente timorosi di scontrarsi con pezzi grossi, da novanta, come Amintore Fanfani, Flaminio Piccoli, Antonio Gava, Ciriaco De Mita. Di quest’ultimo, leader della sinistra chiamata “Base”, almeno da Roma in giù, essendone al Nord il capo indiscusso Giovanni Marcora, Albertino per gli amici e i partigiani  della Resistenza, Gerardo era stato a suo modo allievo nella comune Irpinia. Ma, come i migliori allievi, non succubo. 

La rottura politica fra i due avvenne nel 1979, quando, consumatesi la tragedia di Aldo Moro e la stagione eccezionale della cosiddetta “solidarietà nazionale”, da non confondersi -come fanno ancora oggi in molti, anzi in troppi- col più complesso e organico “compromesso storico” perseguito da Enrico Berlinguer, i più giovani e valenti fra i parlamentari democristiani avvertirono la necessità di farla finita con quello stato di emergenza da cui si erano sentiti costretti anche nei rapporti gerarchici di corrente. 

Nacque così all’interno del gruppo scudocrociato della Camera, all’inizio della legislatura nata dalle elezioni anticipate imposte dal ritorno del Pci all’opposizione dopo l’appoggio esterno a due governi monocolori di Giulio Andreotti, la candidatura di Gerardo a presidente. Ma su quella postazione aveva già messo gli occhi non tanto il segretario allora in carica del partito,  un Benigno Zaccagnini ormai in uscita, quanto Ciriaco De Mita per promuovere Giovanni Galloni, pure lui basista. 

Francesco Cossiga era tornato a frequentare Montecitorio, dopo le dimissioni da ministro dell’Interno, per l’epilogo drammatico del sequestro Moro, tenendo la contabilità -come lui stesso scherzava- della cosiddetta “area Zaccagnini”. Dalla quale ogni giorno, anzi ogni mezza giornata, toglieva qualcuno per mettervi qualche altro: un’attività, chiamiamola così,  di controllo, arruolamento e quant’altro che di lì a poco, con la complicità di Sandro Pertini sul Colle, gli avrebbe procurato Palazzo Chigi. Cui sarebbero seguiti Palazzo Madama, cioè la presidenza del Senato, e infine il Quirinale.

In uno dei tanti aggiornamenti della lista dell’”area Zaccagnini” ebbi la possibilità di interloquire e di chiedere a Cossiga una previsione sull’esito della partita sul capogruppo. Partita? mi chiese lui beffardo.    La vittoria l’aveva già in tasca Galloni.  Ai miei dubbi Francesco m sfidò a scommettere una cena. La vinsi, ma non la riscossi mai. In cambio mi guadagnai l’amicizia di Bianco, che vidi crescere sempre di più fuori e dentro la Dc. Dove contribuì alla ripresa dell’alleanza di governo con i socialisti: governo in uno quei quali -il sesto e penultimo di Andreotti- sarebbe entrato come ministro della Pubblica Istruzione sostituendo nel 1990 il collega di partito Sergio Mattarella. Che si era dimesso con altri della sinistra democristiana per protesta contro la disciplina finalmente legislativa dalla televisione privata. Non c’era Ministero, francamente, che non fosse più adatto a uno come Bianco, indicato personalmente ad Andreotti dal segretario della Dc allora in carica: Arnaldo Forlani. 

Diversamente dall’altra volta, quando fu eletto contro le indicazioni del vertice del partito, Gerardo tornò alla guida del gruppo democristiano della Camera all’inizio della legislatura uscita delle urne del 1992 su designazione del segretario, sempre Forlani. E vi sarebbe rimasto sino alla fine anticipata delle Camere, meno di due anni dopo, senza più Forlani segretario e bastian contrario rispetto ad un establishment rassegnato alla fine della cosiddetta prima Repubblica per via giudiziaria. Ma bastian contrario, felicemente, anche nella seconda, terza e quarta del breve conio grillino della legislatura scorsa.

Pubblicato sul Dubbio

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