L’Italia che apre l’ombrello sotto i soldi che possono piovere dall’Europa

            E’ proprio vero che quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito, come dice un vecchio proverbio. E’ un po’ ciò che nella vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera fanno i due omini un po’ euroscettici, chiamiamoli così, che all’entusiasmo da ricovero, in tutti i sensi, del ministro italiano dell’Economia Roberto Gualtieri per Repubblicail fondo di 750 miliardi di euro, di cui 500 a fondo perduto e 172,7 destinabili al nostro Paese, proposto dalla presidente della Commissione dell’Unione oppongono le perduranti resistenze dell’Olanda, ma anche d’altri paesi comunemente definiti “frugali”. Per il cui successo sembra che quei due signori preferiscano fare il tifo, piuttosto che unirsi alla gioia da pazzo di Gualtieri, o a quella più contenuta espressa a Bruxelles dal commissario italiano Paolo Gentiloni e a Roma dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

            La stoltezza tuttavia non sta tanto nel dito metaforico di quei due omini della vignetta di Giannelli. Sta anche, per esempio, in quel titolo sovranista di Libero, che sarà tanto piaciuto -penso- a Matteo Salvini e a Giorgia LiberoMeloni sui banchi dell’opposizione e a chissà quanti sotto le 5 Stelle di Beppe Grillo, pur seduti nel governo e nella maggioranza, sull’Europa che “ci frega anche quando ci aiuta”. Altro, quindi, che Casini al Messaggerol’Europa finalmente “svegliata” che ha appagato il senatore della maggioranza ed ex presidente Il Foglodella Camera Pier Ferdinando Casini in una intervista al Messaggero. Altro che l’arguzia di quel titolo in rosso del Foglio sul “brutto momento per odiare l’Europa”.

            La stoltezza dell’attenzione riservata al dito piuttosto che alla luna sta infine nello scrupolo col quale molti politici, ma anche osservatori, analisti, commentatori, retroscenisti e altri ancora si sono precipitati a interrogarsi, quanto meno, non sulla consistenza, praticabilità e gestione degli aiuti e finanziamenti europei in un Paese come l’Italia, dove i fondi dell’Unione sono finiti spesso più nel cestino più o meno burocratio dei rifiuti, o quasi, che in opere davvero realizzate, ma sui vantaggi mediatici e politici, o sull’opposto, che potrà trarne personalmente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il quale domenica scorsa è stato impietosamente colto in Conteflagrante dal suo pur estimatore Eugenio Scalfari, su Repubblica, a cercare  faticosamente “giorno per giorno” l’appoggio delle componenti della sua maggioranza: “soprattutto” -ha sottolineato il decano ormai del giornalismo politico italiano- del principale movimento della coalizione. Si tratta naturalmente di quello delle 5 Stelle, pur riuscito a designare, imporre e quant’altro lo stesso Conte agli alleati di turno: prima ai leghisti per un governo gialloverde, e poi alla sinistra per un governo giallorosso.

            La politica in Italia è purtroppo questa. O si è ridotta a questo, persino in tempi di emergenza come quelli imposti da un’epidemia virale da molte parti paragonata ad una guerra, anzi alla terza guerra mondiale. Cui diamo l’impressione, almeno per ora, di partecipare pensando più a sgambettare il compagno d’armi che a vincere, o solo ad uscirne vivi.  

 

 

 

 

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Moro, Falcone e Tobagi: il tragico trittico del mese pur mariano di maggio

Col culto mariano che lo contraddistingue per un cristiano -com’era profondamente il mio amico e collega Walter Tobagi- maggio è uno dei tre mesi più cari e suggestivi, fra aprile -di solito- della Pasqua di Resurrezione e dicembre della Natività. Fu invece per Walter il mese della sua prematurissima e drammatica morte, ucciso come un cane a soli 33 anni a Milano sotto casa -esattamente il 28 maggio 1980- da una banda terroristica esordiente che aspirava con quell’azione ad accreditarsi presso le brigate rosse, di sangue e di vergogna.

Nel mese di maggio, il 9, era già stato ucciso a Roma due anni prima proprio dalle brigate rosse, al termine di una prigionia durata 55 giorni, un politico che Walter aveva molto stimato: Aldo Moro.

Nel mese di maggio, il 23, sarebbe stato ucciso 12 anni dopo, nel 1992, Giovanni Falcone in una strage mafiosa, a Capaci, costata la vita anche alla moglie e a quasi tutta la scorta, decimati dal tritolo.

Moro, Falcone e Tobagi sono tre uomini ai quali la democrazia italiana deve moltissimo per l’opera meritoria svolta nei campi, rispettivamente, della politica, dell’informazione e della giustizia: tutti e tre largamente incompresi dai loro contemporanei, in qualche modo vittime prima ancora che i loro assassini li finissero fisicamente.

Moro, una volta rapito fra il sangue della sua scorta a poca distanza da casa, mentre si recava alla Camera per la presentazione dell’ultimo governo alla cui formazione aveva Morodecisamente contribuito come presidente della Dc, si vide negata dal suo partito, per i vincoli di maggioranza col Pci, una linea duttile e umanitaria concessa invece tre anni dopo, nel 1981, senza più quei vincoli, all’assessore regionale campano Ciro Cirillo. Che fu ugualmente rapito dalle brigate rosse ma scambiato con una trattativa opaca come tutte quelle che si svolgono in questi drammatici casi. Ciò peraltro accelerò la crisi del brigatismo.

Falcone fu ucciso dalla mafia dopo essere stato avversato e isolato dai colleghi magistrati, boicottato nell’avanzamento di carriera, nonostante i successi conseguiti nel suo lavoro di contrasto alla criminalità organizzata. Otto mesi prima della morte, quando già aveva preferito allontanarsi da Palermo Falconeper lavorare accanto al ministro della Giustizia Claudio Martelli, a Roma, egli aveva dovuto spiegare ai consiglieri superiori della magistratura, come un apprendista poco diligente, perché avesse condotto le sue indagini sugli assassinii del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella e del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa senza incriminare qualche politico o imprenditore d’alto bordo.

Tobagi, il mio carissimo amico -ripeto- Walter, col quale ero abituato a pranzare in un ristorante a Tobagi vivodue passi da Piazza Navona quando veniva a Roma per lavoro da Milano, fu ucciso dopo vergognose, a dir poco, contestazioni per la sua attività sindacale, che lo aveva portato al vertice dell’associazione lombarda dei giornalisti.

Quel gran signore e fior di professionista che è Ferruccio de Bortoli, scrivendone in questi giorni per celebrare il quarantesimo anniversario della morte, ha espresso la convinzione -almeno così mi è parso di capire- che Tobagi avrebbe potuto diventare direttore del Corriere della Sera, dov’era approdato nel 1972 dopo essere passato per l’Avanti, Avvenire e il Corriere d’Informazione, attratto dal giornalismo giù sui banchi del famoso Liceo Parini di Milano contribuendo alla vivace esperienza della Zanzara.

            Beh, non se l’abbia a male de Bortoli, arrivato alla direzione del Corriere la prima volta a 44 anni, ma non credo proprio che Walter ce l’avrebbe fatta a diventare direttore  a 33 in un giornale in cui il suo rigore professionale gli aveva procurato sì apprezzamenti ma anche invidie e odii incredibili. Ricordo ancora la voce strozzata dal pianto con la quale Bettino Craxi mi raccontò di una telefonata appena ricevuta, dopo la morte di Walter, dal direttore del Corriere Franco Di Bella in persona. Che gli aveva espresso non il sospetto ma la convinzione che Tobagi fosse stato ucciso “qui dentro”.

D’altronde, nella rivendicazione della “esecuzione” di Walter la “Brigata XXVIII marzo” capeggiata dal giovane Marco Barbone aveva usato argomenti e linguaggio di chi conosceva bene l’ambiente e la sua attività professionale e sindacale. Walter non aveva solo il torto di avere capito bene il terrorismo, considerandolo per niente invincibile, e scrivendo delle sue contraddizioni che ne avrebbero potuto segnare la fine. Aveva anche la colpa di nutrire simpatie dichiaratamente socialiste e, più in particolare, craxiane in un momento in cui il Psi tornato fortemente autonomista dava fastidio a molti.

Grazie anche a quel tipo di rivendicazione, i Carabinieri e, più in generale, gli inquirenti arrivarono rapidamente a individuare i responsabili dell’infame operazione. Barbone e i suoi amici erano figli d’ultrasinistra di papà bene introdotti nel mondo dell’informazione. E, appena preso, Barbone praticò il pentitismo parlando.

Rimasero tuttavia ombre sulla ricerca giudiziaria della verità e sulle pene troppo a buon mercato rimediate dai principali responsabili, fra le proteste di parlamentari socialisti che furono per questo denunciati dai magistrati e processati con l’autorizzazione concessa dal Parlamento grazie ai voti comunisti.

Lo spettacolo fu tale che Craxi, nel frattempo diventato presidente del Consiglio, si schierò coi suoi compagni di partito scandalizzando il Consiglio Superiore della Magistratura. Che avrebbe voluto a sua volta Craxicensurarlo, trattenuto con la sua solita energia dal presidente, e capo dello Stato, Francesco Cossiga. Il quale, pronto anche quella  volta a mandare i Carabinieri al Palazzo dei Marescialli, ricordò che un capo di governo risponde delle sue opinioni solo al Parlamento che gli ha dato la fiducia e potrebbe, se ne ha la voglia  e i numeri, ritirargliela.

Poi si sarebbe appreso che, per quanto condannati, i parlamentari socialisti non avevano avuto torto a dubitare. Fu alla fine davvero ritrovata, fra l’altro, la prova di una informazione pervenuta alle forze dell’ordine, e persasi per un certo tempo per strada, su un progetto di sequestro  di Tobagi da parte dei terroristi, per cui il giornalista poteva ben essere protetto di più.

Ah, Valter. Che peccato averti perduto così presto e così atrocemente, e non aver più potuto ascoltare le tue pacate e mai superficiali riflessioni e analisi di collega e di uomo profondamente buono.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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