La “ripartenza” accolta con sollievo, a parte le solite stecche o ironie….

            A parte quel “po’ di paura” avvertita nel titolo di Repubblica, ma ancor più da Vauro in quella Repubblica.jpegvignetta del Fatto Quotidiano in cui il povero Giuseppe Conte è stato riproposto nei panni Corriere.jpegtragici di Amleto alle prese col coronavirus, l’avvio della “fase 2” o “ripartenza” sulla strada emergenziale Messaggero.jpegimpostaci dall’epidemia è stato registrato generalmente con Il Foglio.jpegsollievo dai giornali. Chi più e chi meno ha tirato un sospiro di sollievo, sino a spingersi, come Il Foglio, a parlare in rosso di “ottimismo”, pur “trascurabile” forse per scaramanzia.

             Non sono mancati naturalmente i pessimisti, diciamo così, istintivi che hanno esasperato le indubbie incertezze e confusioni anche del secondo di chissà quanti tempi ancora di questa partita virale La Verità.jpegper gridare la propria protesta. Penso, per esempio, alla “pagliacciata in mascherina” gridata dalla Verità di Maurizio Belpietro, come in un Carnevale ormai fuori stagione.

            Un po’ di sollievo, anzi di vera e propria fiducia, per la ripartenza è stato manifestato da un pur vecchio imprenditore come l’ingegnere Carlo De Benedetti. Che proprio ieri, a 85 anni compiuti nello scorso autunno, e quindi in marcia verso gli 86, ha annunciato la fondazione Carlo De Benedetti.jpegnella “sua” Torino, naturalmente, di una nuova società – Domani- propedeutica ad un omonimo giornale quotidiano. Che egli ha deciso di fare uscire a settembre,  dopo essere rimasto orfano di Repubblica, venduta dai figlioli a Jhon Elkann, il nipote del compianto avvocato Gianni Agnelli. Di cui l’ingegnere è stato collaboratore e poi concorrente, e che concorrente.

            Alla presidenza della nuova società Carlo De Benedetti, che almeno per ora ne è l’unico azionista, ha chiamato l’amico senatore del Pd Luigi Zanda.jpegLuigi Zanda, dimessosi proprio per questo da tesoriere del partito di Nicola Zingaretti e da esponente della Stefano Feltri.jpegcommissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario. Alla direzione del nuovo giornale, che si propone di essere un po’ corsaro, per ora di sole ma dense otto pagine, è stato designato il giovane Stefano Feltri, già vice direttore del Fatto Quotidiano e particolarmente ferrato in materia economica e finanziaria.

            Con ben poca eleganza, vista anche la provenienza del suo direttore designato, sul nuovo giornale si è già rovesciato, ben prima di affacciarsi nelle edicole o solo di sfornare i primi cosiddetti numeri Il Fato contro Domani.jpegzero, lo scherno, anzi la “cattiveria” vera e propria, come si chiama la rubrichetta di prima pagina che se n’è occupata, del Fatto di Marco Travaglio. Che non gli ha certamente dato il benvenuto declassandolo da Domani all’Altroieri: questione di stile, di gusto, o di educazione. Messa a confronto Domani.jpegcon questa presunta spiritosaggine, appaiono di altissima società l’evidenza e la neutralità dell’annuncio riservatogli da Repubblica, che pure dovrebbe subirne la maggiore e dichiarata concorrenza d’opinione, visti i propositi quasi di rivincita dichiarati espressamente dall’editore.

             Chi si riempie la bocca, solo la bocca purtroppo, dei valori della Costituzione cui si ispirò Il Fatto Quotidiano nascendo sotto la direzione di Antonio Padellaro -una Costituzione che nell’articolo 21 garantisce a tutti “il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione”- dovrebbe apprezzare, non deridere, la nascita di un nuovo giornale, specie in un momento così critico per l’editoria. Auguri, pertanto, al vecchio ingegnere, per quante critiche mi sia capitato di rivolgergli dai giornali in cui ho lavorato, e a quanti gli daranno una mano in questa sfida, anche familiare.

 

 

 

 

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Due schieramenti -di maggioranza e opposizione- ugualmente divisi e gassosi

Si fa presto a parlare, anche dopo gli ultimi dibattiti parlamentari sull’emergenza virale gestita dal governo Conte, ed entrata adesso in una nuova fase, di maggioranza e di opposizione. O di opposizioni al plurale, secondo la generalità delle rappresentazioni, come se differenze e contrasti non attraversassero pure la maggioranza.

Ebbene, entrambi gli schieramenti hanno una destra, un centro e una sinistra, anche se solo uno si chiama formalmente centrodestra. Ed è quello naturalmente a trazione leghista, che avrebbe probabilmente vinto le elezioni anticipate d’autunno se il presidente della Repubblica le avesse permesse e non fosse stato invece esentato dalla formazione improvvisata ed emergenziale della maggioranza giallorossa. Essa fu promossa a sorpresa nella scorsa estate da Matteo Renzi, ancora nel Pd, per evitare i famosi “pieni poteri” chiesti agli elettori dall’altro Matteo, cioè Salvini.

Il centro del centrodestra – non me ne voglia Berlusconi, che lo reclama- è della Lega per la sua consistenza elettorale, per quanto in arretramento secondo gli ultimi sondaggi. La destraSalvini.jpeg è naturalmente quella di Giorgia Meloni, che ne è orgogliosa, come se l’avesse pazientemente gestita e partorita come una figlia dopo la sostanziale scomparsa di Gianfranco Fini dalla scena. E la sinistra -non il centro, ripeto- è rappresentata inusualmente dal Cavaliere per la suaBerlusconi.jpeg obiettiva vicinanza maggiore, su tanti temi, a cominciare dai rapporti con l’Unione Europea, a larga parte, diciamo così, dell’altro schieramento: non tutto, però, perché i grillini, come vedremo, fanno storia a sé. Della linea di Berlusconi si  appena compiaciuto in una intervista alla Stampa Enrico Letta, del Pd, che pure a Palazzo Chigi lo aveva perduto come alleato nell’autunno del 2013.

L’altro schieramento è formato da un centro identificabile nel Pd di Nicola Zingaretti, ora anche per ragioni numeriche, dandolo i sondaggi più avanti del Movimento 5 Stelle uscito invece elettoralmente più forte, e perciò centrale, dalle urne del 4 aprile 2018. La posizione di destra spetta a Renzi, uscito dal Pd per denunciare ogni volta che può la vera o presunta sudditanza del Pd ai grillini.  Che egli classifica non a torto a sinistra quando denuncia gli sperperi prodotti dal loro cosiddetto reddito di cittadinanza e quelli che potrebbe procurare il reddito “universale”, proposto da Beppe Grillo in persona quando è insorta l’emergenza virale e se ne sono profilate le conseguenze economiche e sociali.

Ma i grillini non sono sempre e certamente individuabili a sinistra. Sono frequentemente anche a destra: quella sovranista, per esempio, della loro ostilità o diffidenza verso il meccanismo europeo di stabilità economica, o fondo salva-Stati, in concorrenza o nuova simbiosi con la Lega, scelta del resto come alleata di governo subito dopo le elezioni politiche di due anni fa.

I grillini si ritrovano a destra, almeno quella classica, anche nella concezione del carcere dove il secondino potrebbe gettare la chiave della cella in cui ha appena chiuso il detenuto di turno. E se Bonafede.jpegun magistrato ne tira fuori qualcuno perché le sue condizioni sanitarie lo hanno portato più vicino alla morte che alla vita, sono guai. Sotto questo profilo – me lo lasci dire senza malanimo personale l’interessato, ora anche capo della delegazione pentastellata al governo- il guardasigilli Alfonso Bonafede è finito a destra tanto rigorosamente quanto forse inconsapevolmente. per istinto. Avrà letto, spero, l’intervista dell’avvocato Franco Coppi al Dubbio.

Di fronte ad uno scenario del genere, con due schieramenti -ripeto- entrambi divisi, il meno che si possa lamentare della situazione politica è, diciamo così, il suo stato gassoso. Che, specie con l’aggravante dell’emergenza virale sopraggiunta alla stregua di una guerra, o un uragano, come preferisce dire il Papa, comporta confusione o addirittura marasma. E toglie giustamente il sonno anche al presidente della Repubblica. La cui loquacità in questo periodo, in termini di messaggi, appelli e quant’altro, dimostra da sola quanto egli sia preoccupato, e non ritenga forse sufficienti, o sufficientemente “chiari”, gli indirizzi e quant’altro del governo e del premier, prodigo di conferenze stampa, interviste e dichiarazioni, oltre che di decreti. Il cui acronimo una volta noto solo agli addetti ai lavori –dpcm– è entrato di prepotenza nelle cronache e negli stessi titoli dei giornali.

Alle prese con una realtà di questo genere, con i due classici schieramenti parlamentari e politici così divisi al loro interno, Aldo Moro si sarebbe messo probabilmente a lavorare per scomporli e ricomporli in altro modo, secondo le sue abitudini, accostando ulteriormente i più vicini su certi aspetti o problemi più urgenti di un programma di governo, e allontanandoli dagli opposti. Ma Moro è morto, peraltro in una maniera che più tragica non poteva essere, ben 42 anni fa. E, per quanti sforzi faccia spesso Eugenio Scalfari da qualche tempo di indicare Conte come un suo corregionale erede o emulo, accostandolo domenica scorsa su Repubblica anche a Cavour e persino a Papa Francesco, il paragone continua a sembrami temerario.

Va detto tuttavia, a beneficio di Conte, che la situazione politica attuale è terribilmente più complessa di quelle pur difficili gestite da Moro ai suoi tempi. Che avevano Conte.jpegcomunque  partiti Enrico Letta.jpegben strutturati e certezze internazionali, scomparse con la caduta del muro di Berlino e con la fine del cosiddetto mondo bipolare modellato a Yalta. “Un abisso ci può inghiottire”, ha osservato Enrico Letta aggiungendo: “La politica non è lacerata, è proprio a coriandoli”.

Non c’è adesso qualcosa di paragonabile all’extraparlamentarismo di sinistra prodotto dalla contestazione sessantottina, che spinse per forza di cose il Pci verso il centro, non certamente al centro, e consentì a Moro quell’apertura ai comunisti passata alla storia come “strategia dell’attenzione”, pur con tutti i suoi inconvenienti sfociati nel terrorismo che costò la vita allo stesso Moro. Cui i brigatisi rossi non perdonarono di volere “imborghesire” il Pci di Enrico Berlinguer.

Ora c’è un amalgama mal riuscito- direbbe Massimo D’Alema-  di pulsioni e confusioni di ogni tipo.  Persino Moro forse si sarebbe messo le mani fra i capelli e avrebbe faticato ad uscirne. Persino lui, ripeto, pensando peraltro anche a Sergio Mattarella, approdato alla politica dopo la morte di Moro ma moroteo come il padre, e poi il fratello ucciso dalla mafia.

 

 

 

Parzialmente pubblicato sul Dubbio

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