Marco Pannella fu davvero speciale, anche quando faceva errori

            Non so cosa abbia contribuito di più all’inusuale celebrazione di Marco Pannella a 90 anni dalla nascita, e non 100, come di solito si fa, e si è fatto ultimamente  prima per Giulio Andreotti e poi per Aldo Moro: di più, dicevo, fra il reale spessore dell’uomo, la nostalgia della sua leadership confrontata con quella degli attuali protagonisti della politica, di maggioranza o di opposizione, o la forza della lobby radicale, per quanto quel mondo avesse giù cominciato a dividersi con Marco vivo. Che un po’ divorava i suoi figli come Saturno vedendoli crescere.

            Quando scrivo di “lobby” lo faccio -sia chiaro- in senso non negativo, come prevalentemente avviene, ma positivo, essendo stata ed essendo quella radicale una consorteria nobilissima, al servizio di grandi cause civili e di diritti troppo a lungo negati o compressi, al netto naturalmente di tutti gli errori che possono essere stati compiuti da quelle parti e di tutte le opinioni contrarie.

            Ecco, visto che se n’è parlato e scritto prevalentemente bene, come si fa generalmente per e con i morti, in questo caso a soli 4 anni dalla dipartita, a avrei ben poco da aggiungere, è proprio un errore, il più clamoroso, di Pannella che vorrei ricordare per sottolineare anche in questo la diversità del personaggio rispetto alle abitudini della politica. Lui era capace di riconoscere i suoi sbagli e di scusarsene, per giunta in pubblico prima ancora che in privato.

            Contro Giovanni Leone, eletto al Quirinale alla fine del 1971 come soluzione di compromesso tra Amintore Fanfani e Aldo Moro, troppo forti nel proprio partito, la Dc, per scalare con successo il colle più alto di Roma, Pannella si impuntò molto curiosamente. Prima lo attaccò per Leone.jpegle abitudini scaramantiche, tutte della sua terra, che lo spingevano a proteggersi o a prevenire i guai facendo le corna con le dita, senza avere neppure l’astuzia di nasconderle, tanto l’uomo era spontaneo. Poi il leader radicale si unì, se non addirittura guidò una infame campagna diffamatoria: lui, poi, Marco che era un garantista dai capelli, sempre avuti in abbondanza, ai piedi. Quella volta, chissà perché, egli inciampò nella campagna mediatica avvolta nella carta di un libro di Camilla Cederna, poi condannata in tribunale: una campagna  cominciata e cresciuta per le  denunce dei redditi di Leone, per le grazie che concedeva e per i rapporti amichevoli con un collega professore universitario sfortunatamente rappresentante in Italia dell’americana Loockeed, indulgente con la pratica delle tangenti per vendere i suoi aerei di trasporto militare nel mondo.

            A quella campagna ad un certo punto decise di appendere gli interessi politici del suo partito Enrico Berlinguer, che dall’interno della maggioranza di solidarietà nazionale di cui faceva parteBerlinguer.jpeg reclamò e ottenne le dimissioni di Leone da capo dello Stato, peraltro a soli sei mesi di distanza dalla scadenza del suo mandato, e quindi con un effetto denigratorio raddoppiato. Il mio amico Marco, che pure non era uno sprovveduto, e non era neppure tenero con i comunisti, naturalmente ricambiato, una volta tanto non si insospettì. E gli capitò cosi di partecipare alla crocifissione politica di un presidente della Repubblica che nei 55 giorni della prigionia del povero Moro nelle mani dei sanguinari brigatisti rossi, aveva Moro  morto.jpegavuto il torto -agli occhi dei comunisti- di non  condividere la cosiddetta linea della fermezza, sino a predisporre, peraltro inutilmente, la grazia ad una terrorista compresa nell’elenco dei detenuti che quei criminali volevano scambiare col loro ostaggio. Dopo una ventina d’anni, tardi ma in tempo perché Leone potesse consolarsene nel suo rifugio alle Rughe, Pannella si scusò con lui trascinandosi appresso una volta tanto anche i comunisti.

 

 

 

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Si è aperta una fase 2 anche al Quirinale: elezioni anticipate in mascherina

            Il 4 maggio non è cominciata, nella solita confusione di idee e parole, ma sotto sotto anche con un pizzico di fiducia, la cosiddetta fase 2 dell’emergenza virale: non del governo, per Mattarella.jpegcarità, perché quella si è persa per strada col sopraggiungere del Codi 19, dopo essere stata programmata per la fine di gennaio. E forse non è stato neppure un male per Giuseppe Conte, perché le fasi 2 ai governi portano generalmente male.

Lunedì scorso, all’incirca, è maturato anche un altro approccio del sempre più preoccupato presidente della Repubblica al movimento o sommovimento dei partiti, di maggioranza e di opposizione, attorno all’esecutivo. Sergio Mattarella è passato -mi dicono, spiazzando anche alcuni suoi consiglieri- da un no secco ad un altrettanto secco sì all’ipotesi di elezioni anticipate in autunno, anche a costo di mandare gli elettori alle urne con la mascherina, e con le distanze di sicurezza definite addirittura “sociali” da molti senza rendersi conto dell’enormità di questo aggettivo. Cui sarebbe preferibile quello di “fisiche”.

Apparentemente contraddittoria, la linea del capo dello Stato è rimasta invece coerente, come vedremo, con la sua ostilità, nei tempi che corrono e che non sono molto luminosi, ad una crisi al buio, da aprire e affrontare come in una bisca.

Il 17 aprile scorso -segnatevi bene questa data- il quirinalista principe del nostro giornalismo, che è Marzio Breda, traduceva così sul Corriere della Sera lo stato d’animo del presidente dellaBreda del 17 aprile.jpeg Repubblica di fronte ai partiti che maramaldeggiavano più o meno esplicitamente per un’altra crisi estiva diretta questa volta con successo, contrariamente all’anno scorso, quando fu attivata da Matteo Salvini, verso la chiamata autunnale alle urne: “Prima di tornare al voto servono un referendum e una legge elettorale. Chi li farebbe? E anche per cambiare in corsa il capo del governo (se mai ci si riuscisse) occorrerebbero almeno due-tre mesi di consultazioni e negoziati. Una follia pensarci, mentre il virus infuria”.

Il referendum di cui scriveva il quirinalista del Corriere è naturalmente quello sulla riduzione del numero dei parlamentari, già indetto per il 29 marzo ma  rinviato a data ancora da fissare per evitare di trasformarlo in un’occasione di contagio virale. La legge elettorale è quella naturalmente conseguente alla realtà di un Parlamento cambiato così radicalmente, a rischio di non poter più contenere la rappresentanza di parti consistenti del Paese applicando la legge elettorale oggi in vigore.

Ebbene, vediamo cosa lo stesso Breda, parlando al Quirinale con le stesse persone, cioè attingendo alle stesse fonti, ha scritto non più tardi del 6 maggio scorso: “Se poi davvero la deadlineBreda del 6 maggio.jpeg del governo Conte fosse a giugno, come si sostiene, Mattarella ci mancherebbe alle urne a settembre, nel quadro istituzionale che c’è adesso. Cioè con l’esecutivo dimissionario a traghettarci al voto. Con i sommovimenti tra i due fronti suggeriti dagli ultimi sondaggi, nessuno può dare per scontato come andrebbe a finire”.

Che cosa è accaduto fra il 17 aprile e il 6 maggio perché gli umori al Quirinale cambiassero così tanto? Che cosa è accaduto oltre all’apertura della già ricordata fase 2 dell’emergenza, in cui il virus ha perso forza, come dicono gli esperti, ma non si è certamente spento e non ha smesso di fare paura, essendo stati tutti gli allentamenti delle restrizioni  accompagnati con l’avvertimento che si potrebbe tornare indietro in qualsiasi momento? E’ accaduto che Mattarella si è sentito frainteso dai protagonisti e attori della politica, di maggioranza e di opposizione, ed ha reagito con la durezza di cui solo i calmi sono capaci quando si arrabbiano davvero.

Poiché il no alle elezioni anticipate, che dipendono -ricordiamolo- dalle valutazioni solo del presidente della Repubblica per esplicito dettato costituzionale, che lo obbliga solo a “sentire” prima i presidenti delle Camere per questioni, diciamo così, di galateo istituzionale, è stato interpretato da qualche parte -ripeto, di maggioranza e di opposizione- come licenza a giocare col governo come al pallone, mandandolo in porta e fuori porta, in tribuna o altrove, perché alla fine il presidente della Repubblica avrebbe sempre trovato il modo di venirne a capo senza elezioni, Mattarella ha cambiato, diciamo così, il suo schema di gioco. E in nome della chiarezza, che in un sistema parlamentare quale continua ad essere il nostro, pur nell’emergenza virale,  non può prescindere più di tanto dalla sovranità popolare, scritta anch’essa in Costituzione, ha avvertito i giocatori delle due squadre formalmente in campo che è pronto a mandarle negli spogliatoi. E poi se la vedono loro con gli elettori, pagando il prezzo che costoro decideranno.

Pazienza- sembra di capire, se quello di Mattarella è un colpo vero, come merita di essere interpretato per l’autorità del capo dello Stato, e non a salve- se il Parlamento uscito da elezioni anticipate nascerà comunque ammaccato e delegittimato, essendo destinato dopo qualche mese a sembrare superato dal dimagrimento prevedibile col referendum che dovrà svolgersi successivamente. A meno che gli umori popolari non cambino tanto da fare scoprire che quel dimagrimento farebbe più male che bene alla democrazia rappresentativa. Anche questo forse si potrebbe mettere nel conto del fantasma elettorale che si aggira adesso nei palazzi della politica.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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