Mattarella gela i sostenitori della sua rielezione fissando il “congedo” dal Papa

Sergio Mattarella ha risposto a suo modo a quanti in pubblico e in privato continuano a chiedergli di rendersi disponibile ad una rielezione implicitamente a termine al Quirinale, per rimanervi sino al rinnovo delle Camere, nel 2023. Ciò permetterebbe l’elezione del suo successore a un Parlamento più legittimato di questo in scadenza anch’esso, l’ultimo peraltro di quasi mille fra deputati e senatori, contro i seicento fissati dalla riforma costituzionale voluta dai grillini.

Il prolungamento della presidenza Mattarella consentirebbe inoltre, o soprattutto, secondo le preferenze, la prosecuzione del governo Draghi “almeno sino al 2023”, come auspicato dal segretario del Pd Enrico Letta fra le ansie, le proteste e quant’altro di chi non vede l’ora di liberarsene. “Non è il nostro governo”, ha detto il “guru” piddino Goffredo Bettini mandando in visibilio il pubblico della festa del Fatto Quotidiano di cui era ospite.

Titolo del Corriere della Sera

            Già premuratosi a manifestare ad una scolaresca il desiderio di godersi il meritato “riposo” alla conclusione del settennato cominciato nel 2015, Mattarella si è affrettato adesso ad annunciare di avere fissato -come ha titolato in prima pagina il Corriere della Sera- la visita al Papa di “congedo” da presidente della Repubblica. Avverrà esattamente il 16 dicembre.

            Certo, tutto potrà accadere da oggi al 16 dicembre e oltre, persino a Camere già riunite e impegnate nelle votazioni: anche un ripensamento di Mattarella, pregato in fila da un po’ tutte le forze politiche, come avvenne con Napolitano nel 2013, a farsi rieleggere per le difficoltà intervenute nella scelta del successore. Ma per ora la indisponibilità del presidente uscente deve ritenersi confermata. E non è forse un caso che questa conferma sia intervenuta dopo il dibattito, a dir poco, apertosi su quella specie di “quinta Repubblica” alla francese intravista per l’Italia dal professore Ernesto Galli della Loggia commentando il cambiamento nei rapporti con i partiti intervenuto con la nomina da parte di Mattarella del governo Draghi e poi consolidato con l’azione del nuovo esecutivo.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Travaglio sul Fatto

            Per quanto basata su considerazioni e fatti indiscutibili, essendo evidente il ridimensionamento subìto dai partiti, con tutte le loro convulsioni interne, dall’azione di un governo guidato con autorevolezza e prestigio internazionale dall’ex presidente della Banca Centrale Europea, la rappresentazione di una quinta Repubblica italiana nata surrettiziamente può avere messo in qualche imbarazzo Mattarella. Una cui rielezione potrebbe rafforzare l’interpretazione della situazione politica e istituzionale espressa dall’editorialista del più diffuso giornale italiano, il Corriere della Sera. E che fa drizzare i capelli particolarmente ai nostalgici o ai sognatori di un ritorno di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi tipo Marco Travaglio. Che proprio oggi sul suo quotidiano sogna una crisi provocata da una spaccatura della Lega fra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. E si lamenta nell’editoriale di una specie di giornalista collettivo che “al governo Draghi perdona tutto, dipingendolo apoditticamente come una covata di fenomeni, di cui peraltro sfuggono le imprese memorabili. Così i ministri, a furia di sbagliare senza l’ombra di una critica, si credono infallibili. E sbagliano ancora di più”: da “Cartabia, Cingolani, Brunetta” al  “catastrofico Bianchi, l’ectoplasma che chiamiamo ministro dell’Istruzione”, scrive il direttore del Fatto.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La stagione un pò gollista della politica italiana

Titolo del Dubbio

Nelle ricche biografie di Mario Draghi non c’è traccia di servizio militare. Dal quale probabilmente egli fu esonerato all’epoca della leva perché rimasto orfano di padre all’età di 15 anni, per quanto liquidato poi da Marco Travaglio come un fortunato “figlio di papà”, aiutato cioè dal prestigio, dalle conoscenze e quant’altro del genitore a fare carriera. Stento perciò ad immaginarlo in divisa da generale come ha in qualche modo fatto sul Corriere della Sera il professore Ernesto Galli della Loggia paragonandolo a Charles De Gaulle, chiamato nel 1958 alla guida del governo d’oltr’Alpe dal presidente Renè Coty, che l’anno dopo gli passò le consegne al vertice della quinta Repubblica francese, nata dal referendum costituzionale promosso dallo stesso generale. La cui filosofia o dottrina nei dizionari è finalizzata alla diminuzione o al controllo del potere dei partiti politici, letteralmente naufragati 63 anni fa in Francia alle prese con la questione algerina. Che solo un uomo dell’autorità e del prestigio di De Gaulle avrebbe potuto poi risolvere accordando l’indipendenza alla ribelle colonia francese.

Il generale Charles De Gaulle

            Pur senza i gradi di generale, senza una riforma passata per il voto popolare, anzi dopo due riforme costituzionali più o meno organiche inutilmente tentate, prima da Silvio Berlusconi e poi  da Matteo Renzi, e a 74 anni da poco compiuti, contro i 68 che De Gaulle aveva quando Coty gli affidò la guida del governo propedeutica alla nascita della quinta Repubblica francese, Draghi ha già tagliato un bel po’ di unghie ai partiti italiani. Che ha associato quasi interamente -ad eccezione della destra di Giorgia Meloni e della piccola sinistra di Nicola Fratoianni- ad una maggioranza e ad un governo di sostanziale emergenza usciti, diciamo così, dal cilindro di Sergio Mattarella dopo la lenta ma inesorabile caduta del secondo governo di Giuseppe Conte. E in piena pandemia, considerata dal presidente della Repubblica -con la insindacabilità derivante dalla esclusività del suo potere di scioglimento anticipato delle Camere- troppo pericolosa per moltiplicare i rischi di contagio chiamando gli italiani alle urne prima della scadenza ordinaria della legislatura.

            Con acutezza pari all’apparente paradossalità del suo assunto Ernesto Galli della Loggia ha raccontato ai lettori del Corriere che “Draghi sta dando vita ad una sorta di semipresidenzialismo sui generis, che arieggia per l’appunto quello della V Repubblica gollista, nel quale (salvo il caso raro della cosiddetta “coabitazione”) il mandato di governo è di fatto staccato dalla effettiva volontà dei partiti che compongono la maggioranza parlamentare. Sia chiaro: egli non governa -ha spiegato il professore- senza o contro tale maggioranza, ma tale maggioranza è come implicitamente presupposta, in un certo senso data per scontata dagli stessi partiti che la compongono, i quali accettano volontariamente l’ininfluenza del loro eventuale dissenso”.

            E’ difficile dare torto a questa analisi politica. Che in questi giorni o in queste ore, di fronte al percorso parlamentare, per esempio, del decreto legge sul green pass, approvato in Consiglio dei Ministri dai leghisti che tuttavia hanno votato alla Camera alcune delle modifiche proposte dall’opposizione di destra sapendole tuttavia destinate alla bocciatura, andrebbe completata con un’altra osservazione. Ai fini dell’azione di governo e delle valutazioni del presidente del Consiglio, è ininfluente non solo il dissenso di questa o quella forza politica della maggioranza, tanto vasta da potere generalmente assorbire ogni episodio di quella che in tempi ordinari verrebbe chiamata “disciplina”, ma anche il tentativo ora di questo ora di quel partito di reclamare o lavorare per una crisi come reazione a presunte o vere insubordinazioni altrui.

            Accade così che Draghi, in abiti sempre rigorosamente civili, non militari, rimanga indifferente alle proteste del segretario del Pd Enrico Letta contro le libertà o licenze che si permette Salvini, o che Salvini a sua volta permette ai parlamentari della Lega. Accade inoltre che lo stesso Enrico Letta, d’altronde, continui a ritenere “suo” il governo Draghi, tanto da considerare Salvini un intruso, abusivo e quant’altro, mentre il collega di partito Goffredo Bettini, senza incorrere in alcuna censura o segno tangibile di dissenso, dice disinvoltamente in una manifestazione politica di cui è ospite che quello in carica “non è il nostro governo”.

            Accade infine che anche Giuseppe Conte, il presidente del Movimento 5 Stelle operante sotto la garanzia praticamente a vita di Beppe Grillo, che pure lo aveva bocciato come inadatto alla carica poi lasciatagli conferire digitalmente, possa smentire ciò che i “suoi” ministri hanno approvato a Palazzo Chigi. O possa fingere di non avere capito che le barricate annunciate a difesa del cosiddetto reddito di cittadinanza sono farlocche, essendo Draghi tanto cortesemente quanto fermamente deciso a modificarlo dopo tutti gli abusi che ne sono stati fatti per il modo improvvido in cui fu istituito dallo stesso Conte nel suo primo governo.

            La quinta Repubblica italiana -dopo la prima decapitata dalle Procure, la seconda di fatto formatasi con l’arrivo di Berlusconi a Palazzo Chigi, la terza tentata da Renzi e la quarta partorita in piazza da Grillo con le sue invettive e parolacce- non è nata come quella francese del 1959, ma è già in qualche modo operante. E non solo nella immaginazione del professore Ernesto Galli della Loggia. D’altronde, i fiumi si scavano da soli i loro letti.

Pubblicato sul Dubbio

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