Scenata di “gelosia” di Marco Travaglio per Giuseppe Conte contro Franco Bernabè

Ero certo, anzi certissimo, che al Fatto Quotidiano non avrebbero perdonato a Franco Bernabè la partecipazione di giovedì scorso alla trasmissione di Lilli Gruber su la 7, per quanto in quel salotto televisivo il direttore dello stesso Fatto, Marco Travaglio, e taluni dei suoi collaboratori siano praticamente di casa, e trattati di solito con i guanti. Che invece la conduttrice dismette spesso con altri ospiti che non le fanno la cortesia di assecondarla nelle risposte.

Titolo del Fatto Quotidiano

Puntualmente è arrivato oggi non un corsivetto, o “la cattiveria” di giornata, o una vignetta, o il fotomontaggio più o meno di rito -non mancando certamente materiale d’archivio su cui lavorare contro un manager così noto, “ex amministratore di tutto”, come lo ha ironicamente definito Travaglio-  ma un editoriale vero e proprio. Il cui titolo parla da solo: “Bernabè perepè”.

Con mia grande sorpresa, tuttavia, conoscendo bene l’insofferenza verbale e mimica dimostrata da Travaglio ogni qualvolta gli capita di vedere e sentire uno che non parla male dell’arcinemico Silvio Berlusconi, o addirittura ne parla bene, il direttore del Fatto Quotidiano non se l’è presa per il riconoscimento reso da Bernabè all’ex presidente del Consiglio di non avere mai cercato di interferire in alcun modo nel suo lavoro alla guida di importantissime aziende e gruppi.

Editoriale del Fatto Quotidiano

No. Questa volta Travaglio non è riuscito a digerire il fatto, minuscolo, che Bernabè abbia elogiato come più non si poteva il presidente del Consiglio in carica Mario Draghi, senza alcun imbarazzo per essere stato da lui appena nominato presidente delle Acciaierie d’Italia, senza mai neppure nominare, e tanto meno riconoscere qualche merito a chi lo ha preceduto a Palazzo Chigi. E ne è stato così barbaramente, incivilmente, ingiustamente, ignobilmente allontanato da meritarsi quel volumetto dello stesso Travaglio dal titolo di un giallo come “Conticidio”. Sto scrivendo naturalmente di Giuseppe Conte, non una ma due volte capo del governo nella storia recentissima della Repubblica italiana, uscito da Palazzo Chigi ancora fresco di energie e già dichiaratamente sfinito, o quasi, dalla fatica immane -lo riconosco anch’io- di presiedere il Movimento 5 Stelle sotto la vigilanza -pardon, la “garanzia”- di Beppe Grillo. Che dopo averlo designato a quella carica lo bocciò clamorosamente e pubblicamente come incapace e poi lo riabilitò facendogli pagare, come ogni buon genovese, il pranzo della riconciliazione, o del presunto chiarimento, in una trattoria sulla sabbia toscana di Marina di Bibbona. Dove di casa, intesa in tutti i sensi, anche come villa con tanto di stanze, servizi, cancello e utenze per la residenza estiva, non era però il pugliese Conte, ma il ligure Grillo.

Più che un attacco a Bernabè, peraltro accusato da qualche critico sino a qualche mese fa di essere particolarmente attento anche alla novità politica costituita dai grillini, al netto delle loro stravaganze e delle loro aggressioni verbali per frenare le quali si è dovuto mettere mano anche al regolamento, che ora vieta l’uso di parole e immagini volente; più che un attacco a Bernabè, dicevo, quella di Travaglio mi è sembrata una specie di scenata di gelosia, o nostalgia. Di cui Conte sarà rimasto, si spera, commosso.  

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La fuga di Silvio Berlusconi dalla vetrata dei matti

Titolo del Dubbio
La lettera di Berlusconi al tribunale di Milano

Il manicomio, per quanto metaforico, al quale Silvio Berlusconi si è sentito destinato da quell’”ampia e illimitata perizia psichiatrica”, come lui l’ha definita, disposta dal tribunale di Milano che lo sta processando dal 2018 per “induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”, si è dissolto solo formalmente con la sua orgogliosa rinuncia, appena comunicata al presidente della settima sezione, a chiedere per ragioni di salute altri rinvii di udienze nel prosieguo del processo. Che pertanto continuerà in sua assenza, non so se concludendosi rapidamente, e incrociando chissà quali scadenze politiche e istituzionali per la solita, presunta casualità, con un’assoluzione o una condanna, pessimisticamente più prevista dall’interessato. Secondo il quale proprio la disposizione di quell’ampia e illimitata perizia psichiatrica, anziché di una semplice perizia “medico-legale e cardiologica”, come ha scritto Berlusconi nella lettera, proverebbe “un evidente pregiudizio” nei suoi confronti, e quindi una predisposizione a condannarlo.  

Il manicomio, sempre metaforico, per carità, grazie all’abolizione disposta tanti anni fa dalla legge Basaglia, rimane aperto perché stento personalmente a capire, per esempio, il cambiamento intervenuto fra maggio e settembre di quest’anno nella linea della Procura di Milano, e fatta notare nella lettera di Berlusconi.

In particolare, la Procura diretta da Francesco Greco, che sta concludendo il suo mandato tra imbarazzanti polemiche, se non le vogliamo meglio definire inquietanti, chiese quattro mesi fa “lo stralcio” della posizione di Berlusconi dal processo “condividendo -ha scritto l’imputato- la fondatezza delle ragioni mediche” esposte nelle relazioni depositate in tribunale. Ma l’8 settembre scorso, in occasione di un’altra udienza cui Berlusconi si sentiva impedito a partecipare per ragioni di salute, fra un controllo e l’altro all’ospedale San Raffaele, la Procura ha cambiato atteggiamento “con toni e metodi davvero inaccettabili nei confronti miei e dei medici che mi hanno per molte volte visitato”, ha scritto l’ex presidente del Consiglio.

Che cosa è o può essere accaduto fra maggio e settembre per fare cambiare opinioni, umori e quant’altro nella Procura milanese sino a fare di Berlusconi un possibile malato di mente? Al Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, in un giudizio che accomuna pubblici ministeri e giudici, si sono dati questa risposta: la volontà “più o memo inconsapevole” degli uni e degli altri di “recuperare il prestigio “giustizialista” di una struttura giudiziaria, quella milanese, che è attraversata da tensioni e da veri e propri scandali che sono arrivati alle denunce reciproche tra magistrati che hanno ricoperto e ricoprono ruoli apicali”.

E’ evidente il richiamo alle polemiche già accennate fra le quali si sta concludendo l’esperienza di Francesco Greco alla Procura ambrosiana, sbottato in una intervista al Corriere della Sera contro il sempre più diffuso carattere “corporativo” e “autoreferenziale” della magistratura. Cui è seguito, fra l’altro, un preavviso di querela di Piercamillo Davigo sul Fatto Quotidiano. Col quale collabora lo stesso Davigo: il “dottor Sottile” fra gli inquirenti di Mani pulite, salito nella carriera giudiziaria sino a presidente di sezione della Cassazione, approdato infine al Consiglio Superiore della Magistratura, decadutovi col pensionamento  e ora sotto indagine per i verbali secretati dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara su una loggia affaristica, politica e giudiziaria, finiti nei suoi cassetti nel Palazzo dei Marescialli e infine approdati sui giornali.

“Può darsi che qualche manettaro impenitente ci caschi, che creda alla favola di un tribunale che non guarda in faccia a nessuno e di un Berlusconi che si nasconde dietro ai referti medici” per sottrarsi al giudizio e quant’altro, hanno temuto al Foglio opponendo a questo scenario una “verità talmente lampante” di arbitrio da “far sperare che questa volta siano davvero pochissimi a farsi intontire da queste manovre, tanto insistenti da diventare quasi stucchevoli”.

Al manicomio metaforico appartiene tuttavia  l’intera storia di questo processo noto come Ruby ter, e articolato in ben sette spezzoni, versioni e quant’altro. Tutto parte dal sospetto avvertito e denunciato alla Procura milanese nel 2013 dalle giudici di primo grado che condannarono Berlusconi a 7 anni per prostituzione minorile, nonostante le testimonianze presuntivamente false e remunerate delle sue vittime o complici. Ma quella condanna fu smentita dall’assoluzione l’anno dopo in appello, l’anno ancora successivo dalla Cassazione. Eppure Berlusconi -incredibile a dirsi fuori da un pur metaforico manicomio- ha continuato ad essere indagato e processato per induzione -ripeto- a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”. Che è un reato, sancito dall’articolo 377 bis del codice penale, per il quale è prevista una condanna da 2 a 6 anni di carcere. Il codice parla anche della possibilità che il fatto si riveli nel processo un reato ancora “più grave”, spero non configurabile come tale per il proposito attribuito all’”imputato” Berlusconi, a torto o a ragione, da avversari e persino da amici consolidati, di partecipare a 85 anni compiuti alla gara per il Quirinale, quando la corsa si aprirà ufficialmente con la convocazione delle Camere congiunte per l’elezione, col concorso dei delegati regionali, del successore di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Ed entriamo così in un altro reparto del sempre più metaforico manicomio

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.policymakrmag.it il 18-9-2021

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