L’Italia imbocca finalmente la strada della normalità politica e giudiziaria

La lettura della sentenza sulla cosiddetta trattativa con la mafia alla Corte d’Appello di Palermo

Eppure c’è un nesso fra le due immagini emblematiche delle ultime ventiquattro ore di cronaca politica e giudiziaria, una volta tanto convergenti sulla strada di un ritorno dell’Italia alla normalità, dopo decenni durante i quali il Paese è sembrato quasi impazzito, schiacciato fra una politica imbelle, assediata, priva di autonomia e una magistratura straripante. Che dopo avere sostituito la politica, o averla duramente condizionata pur sentendosene paradossalmente minacciata, ha preteso anche di sostituire gli storici ricostruendo a suo modo, come vedremo, gli eventi più tragici della Repubblica, non dissipando le ombre ma creandone sempre di nuove.

Titolo del manifesto

La prima immagine, in ordine rigorosamente orario, è quella del presidente del Consiglio Mario Draghi all’assemblea di Confindustria, accolto con una standing ovation largamente meritata per l’impegno col quale egli sta guidando il governo tra varie emergenze.  Che indussero d’altronde il capo dello Stato a chiamarlo a Palazzo Chigi a chiusura di una crisi fra le più tortuose degli ultimi cinquant’anni. “Lunga vita”, hanno tradotto al manifesto quell’accoglienza con spirito un po’ ironico, dati gli orientamenti politici di un quotidiano orgogliosamente comunista, ma conforme allo spirito vero di quell’applauso, levatosi da imprenditori senza i quali -lo riconosceranno anche al manifesto– non si può produrre ricchezza. E che, all’unisono col capo del governo, hanno proposto ai sindacati un patto o un’alleanza per lo sviluppo analogo a quello che un amico, maestro e predecessore di Draghi come l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi promosse nel 1993, in un altro snodo difficile della storia del Paese.

E’ inutile chiedere una distribuzione più equa della ricchezza in una qualsiasi comunità senza produrne di nuova. Altrimenti si può distribuire più equamente solo la povertà. Non mancano d’altronde personaggi e movimenti, come quello grillino uscito vittorioso dalle elezioni politiche del 2018, cultori del pauperismo felice. Di cui in fondo è un prodotto anche il cosiddetto reddito di cittadinanza, nel modo dispendioso e per niente produttivo in cui è stato introdotto.

Titolo del Fatto Quotidiano

L’altra immagine è quella della Corte d’Appello di Palermo che ha finalmente smontato il teorema della cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia costato in primo grado la condanna di tre onoratissimi alti ufficiali dei Carabinieri e dell’ex senatore e cofondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Al Fatto Quotidiano naturalmente non hanno gradito e, col supporto del solito fotomontaggio sarcastico, hanno tradotto così il senso della sentenza: “Trattare con la mafia si può, con lo Stato no”. Marco Travaglio ci ha aggiunto di suo la convinta “solidarietà” ai mafiosi di cui è stata confermata la condanna. Ma di quale trattativa stiamo ancora parlando, essendo arcinoto che i contatti avuti con la mafia nella stagione delle stragi da rappresentanti dello Stato erano finalizzati a fotterla, con la cattura dei boss morti poi in carcere?  

Titolo del Foglio

“Una boiata”, l’ha giustamente definita Il Foglio. Una boiata utile solo a cercare di riscrivere nelle Procure la storia del Paese per delegittimare la cosiddetta seconda Repubblica come un prodotto dei ricatti mafiosi e non di una riforma elettorale. Che peraltro maturò in un marasma creato anch’esso da certa magistratura decapitando con una selezione mirata i partiti generalmente finanziati in modo irregolare.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il green-pass va sperimentato prima di sottoporlo a verifica popolare, se non si vuole demolire il Parlamento

Titolo del Dubbio

L’immaginifico Carlo Freccero non si è certamente smentito lanciando o comunque sposando una proposta di referendum a caldo, diciamo così, su non so quale dei decreti legge riguardanti il green pass. E ciò nonostante le procedure non proprio rapide consentite dalla legge che disciplina la possibilità contemplata dall’articolo 75 della Costituzione di fare abrogare dagli elettori totalmente o parzialmente una legge o un atto equipollente

Ricordo ancora con un misto di simpatia e di perdurante stupore lo scontro che avemmo per telefono nei primi anni Novanta, quando a Freccero venne l’idea nel gruppo berlusconiano del Biscione di affidare una specie di tribuna elettorale a Gianfranco Funari. Col quale peraltro avrei poi avuto l’occasione di litigare abbandonano una trasmissione della quale ero ospite come direttore del Giorno per un processo sommario di mafia da lui tentato, con l’aiuto di un altro ospite, contro l’assente Calogero Mannino. Al quale era capitato di fare qualche anno prima il testimone di nozze alla figlia di un segretario di sezione della Dc in Sicilia, non potendo prevedere che molto tempo dopo lo sposo sarebbe incorso in un processo vero di mafia, in tribunale.

Voi capirete come ad un conduttore così, che riteneva di poter condannare in diretta, a Mezzogiorno, come si chiamava la sua trasmissione, un immaginario imputato basandosi su un articolo di giornale scelto per l’occasione, mi sembrasse quanto meno inopportuno fare condurre una tribuna elettorale nei panni -che so?- di uno Jader Jacobelli, di un Gianni Granzotto, di un Ugo Zatterin, di un Giorgio Vecchietti e di tanti altri dai quali mi era capitato di essere invitato alla Rai per fare domande a Palmiro Togliatti o Ugo La Malfa, o Amintore Fanfani, o Aldo Moro, o Bettino Craxi e via elencando i protagonisti della mai abbastanza rimpianta Prima Repubblica.

Ciò che maggiormente mi stupì di quello scontro telefonico con Freccero fu l’argomento che ritenne di oppormi quando si sentì troppo stretto fra i miei dubbi: il fatto che ne avesse parlato anche col nostro comune amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, trovandolo “d’accordo”, come se a quel nome e a quell’annuncio io dovessi scattare sull’attenti e cambiare idea. O dovessi sentirmi imbarazzato come se a trovarsi d’accordo con Freccero fosse stato il mio amico e editore del Giorno, che era il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Al cui solo ricordo mi commuovo e rabbrividisco pensando alle drammatiche circostanze del suo suicidio in carcere nel 1993, del quale non ha risposto mai nessuno. Dico proprio nessuno.

Il costituzionalista Michele Ainis

Ma torniamo al referendum a caldo, ripeto, contro il green pass. Che ho trovato una freccerata nel senso più ironico e amichevole della parola, nonostante la sorpresa riservatami da un costituzionalista brillante e insieme autorevole come Michele Ainis. Il quale ha indicato in una eventuale conferma referendaria, prevedibile con i sondaggi condotti da vari istituti su vaccinazioni e dintorni, una consolante “legittimazione” delle misure tanto contestate dalle minoranze, e da una parte almeno della Lega nella maggioranza, al presidente del Consiglio Mario Draghi. Il cui treno continua per fortuna a viaggiare rispettando più le attese dei cittadini che le agende di certi partiti, correnti e quant’altro, ma soprattutto rispettando in tema di riforme gli orari concordati con chi in Europa sta finanziando il piano della ripresa da attuare entro il 2026.

Un referendum abrogativo, su qualsiasi legge, non può essere scambiato per una legittimazione né della stessa legge, né della maggioranza che l’ha approvata più o meno recentemente, né del Parlamento nel suo insieme, per il semplice fatto che il referendum non fu voluto con questa finalità dai costituenti. Fra i quali l’unico ad avvertire un timore delegittimante, e quindi ad opporvisi per la sacralità che rivestiva ai suoi occhi l’istituto parlamentare, fu Palmiro Togliatti. Dal cui parere o scrupolo dissentirono tutti gli altri.

D’altronde, nel 2016 neppure il referendum confermativo -che è cosa diversa da quello abrogativo- sulla riforma costituzionale voluta dal governo di Matteo Renzi determinò col suo esito negativo la delegittimazione della maggioranza o delle Camere nel loro complesso, che avevano evitato lo scioglimento anticipato già all’inizio della nuova legislatura, tre anni prima, proprio per il programma di riforma costituzionale che si erano dati prima il governo di Enrico Letta e poi quello di Renzi.

A quest’ultimo che reclamò le elezioni anticipate dopo la bocciatura referendaria della sua riforma, ritenendo che le Camere avessero così esaurito il compito che si erano assegnate sopravvivendo alle difficoltà dell’insediamento, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella oppose un cortese ma netto rifiuto. Disse no per quanto fosse stato proprio Renzi l’anno prima a volerne e consentirne l’ascesa al Quirinale, dopo i sette anni di Giorgio Napolitano e i due supplementari della sua rielezione.

Dirò di più a conclusione di questo ragionamento sul referendum. Quello abrogativo, secondo me, non dovrebbe mai avvenire “a caldo”, come vorrebbero Freccero e Ainis, o viceversa per competenza e autorevolezza, a proposito del green pass. Occorrerebbe una modifica della legge di disciplina del diritto referendario per imporre un periodo di attesa fra l’approvazione della legge e la sua sperimentazione prima di sottoporla a verifica popolare. E ciò proprio per evitare che un semplice referendum abrogativo possa essere scambiato e, peggio ancora, usato come occasione e mezzo di delegittimazione delle Camere in un sistema che non a caso, e orgogliosamente, è e viene definito parlamentare.

Pubblicato sul Dubbio

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