Matteo Salvini tanto ha ragione nel reclamare il tampone gratuito di controllo antipandemico perché -ha detto con riuscita ironia- non tutti hanno la fortuna di trovare nella cuccia del loro cane 24 mila euro, com’è accaduto alla coppia piddina Esterino Montino e Monica Cirinnà, quanto ha torto a votare o lasciare votare i suoi parlamentari contro il lasciapassare sanitario, com’è accaduto nella competente commissione alla Camera. E non può sottrarsi alle polemiche, per quanto strumentali di un segretario del Pd che cavalca ogni occasione per spingere la Lega fuori dal governo e dalla maggioranza, vantandosi di essersi vaccinato e di possedere il green pass.
Titolo del Foglio
Adesso poi Salvini, peraltro contestato per questo anche nel “suo” centrodestra dai forzisti di Silvio Berlusconi, per non parlare dei problemi che ha anche all’interno del suo movimento, non può neppure usare il pur debole argomento di volere inseguire chissà quale elettorato dopo il flop delle manifestazioni annunciate tra piazze e stazioni ferroviarie contro le vaccinazioni. “Le chat sono piene, ma le stazioni vuote”, ha felicemente titolato Il Foglio.
Giorgia Meloni
Se il problema di Salvini fosse solo o soprattutto quello della competizione, all’interno del centrodestra, con i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che ha scelto di rimanere all’opposizione del governo Draghi e ha appena sorpassato di poco i leghisti nei sondaggi, l’esito della linea ambivalente ch’egli sta seguendo sul problema della lotta alla pandemia sarebbe per lui semplicemente disastroso. Perderebbe sia il governo sia le elezioni, anticipate o ordinarie che fossero. Gli rimarrebbero solo gli incoraggiamenti rivoltigli, forse proprio per danneggiarlo e non aiutarlo davvero, dall’imprevedibile ma furbo governatore piddino della Puglia Michele Emiliano.
Richiamo dell’articolo di Davigo sulla prima pagina del Fatto Quotidiano
Più leggevo sul Fatto Quotidiano -e dove, sennò?- Piercamillo Davigo sull’”orda inutile degli avvocati” italiani, come in redazione hanno titolato l’articolo del collaboratore ora privo delle ultime remore che potevano forse avvertire la dirigenza di quel giornale quando egli era ancora magistrato e in più anche consigliere superiore della Magistratura, più provavo a immaginare le reazioni, sempre a leggerlo, di due altri ex magistrati che hanno per un certo tempo condiviso con lui le prime pagine.
Si chiamano entrambi Antonio di nome. Uno è Di Pietro, Tonino per gli amici, legato a Davigo anche dalla comune partecipazione, negli anni della storica inchiesta “Mani pulite”, alla Procura di Milano guidata da Francesco Saverio Borrelli. L’altro è Ingroia, guadagnatosi nella Procura di Palermo la fama di un cacciatore spietato non solo dei mafiosi, come la buonanima di Giovanni Falcone, ma anche dei loro veri o presunti complici o persino referenti politici. Che Falcone fu invece accusato non da un passante ma dal già allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando di avere in qualche coperto nelle sue indagini, tenendo fermi o nascosti nei suoi “cassetti” i sospetti, se non addirittura le prove sulle loro responsabilità.
I nomi, anzi i cognomi di Di Pietro e di Ingroia mi sono venuti, leggendo Davigo a proposito -ripeto- dell’”orda inutile” degli avvocati suggerita dal suo articolo al titolista del giornale diretto da Marco Travaglio, perché entrambi scelsero a suo tempo di fare gli avvocati lasciando la magistratura: l’uno di sua spontanea volontà, dopo avere fatto anche un po’ di politica, l’altro per protesta contro la destinazione valdostana assegnatagli dal Consiglio Superiore della Magistratura nel 2013, dopo il successo mancato da magistrato in aspettativa nelle elezioni politiche, cui aveva partecipato da candidato addirittura a presidente del Consiglio. E dico “addirittura” per l’oggettiva improbabilità di raggiungere un simile obiettivo con una lista cui tutti i sondaggi attribuivano dimensioni, o livelli, da prefisso telefonico.
L’unico effetto al quale Ingroia finì per contribuire fu la sconfitta o nell’ammessa “non vittoria”, nella corsa a Palazzo Chigi, del candidato e segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Al quale i grillini -ma anche l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano- impedirono anche di tentare la formazione di un governo dichiaratamente “di minoranza e combattimento
Titolo del Fatto Quotidiano
Mi permetto di dubitare, salvo smentite di cui prenderei atto volentieri scusandomi con gli interessati, che Di Pietro e Ingroia si sentano partecipi di “un’orda di avvocati inutili”. O, per attenermi solo al testo del finale dell’articolo di Davigo, di fare il loro mestiere ritenendo che “il servizio della giustizia funzioni come ammortizzatore sociale”, cioè “come una sorte di reddito di cittadinanza” invidiabile rispetto a quello introdotto dai grillini, visto che gli avvocati meno fortunati riescono a guadagnare sui ventimila euro l’anno. Ma ne potrebbero guadagnare anche meno se dovessero aumentare di numero, superando il primato già conquistato essendovene in Italia 368 ogni centomila abitanti rispetto ai 147 della Francia.
In mancanza di uno sfoltimento volontario, da legge di mercato, o dell’introduzione di un numero chiuso all’Università o alla professione, di che altro dovrebbero vivere i nostri avvocati se non di troppi e di troppo lunghi processi? Questa è la domanda implicita del lungo e franco ragionamento di Davigo, tutto sommato coerente con l’idea già espressa dall’interessato quando era ancora magistrato, con uguale franchezza e altrettanto uguale sconcerto da parte di chi scrive, che gli imputati assolti e i loro avvocati difensori fossero riusciti soprattutto, se non soltanto, a “farla franca” con i loro espedienti.