Assolti in appello gli ufficiali e Dell’Utri condannati per la presunta trattativa con la mafia

L’appello a Palermo per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia si è concluso con la giusta e prevedibile assoluzione degli ufficiali dei Carabinieri e dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, condannati invece in prima istanza con criminali veri. E’ fallito dunque il tentativo della pubblica accusa di prendere metaforicamente a schiaffi i giudici di primo grado, di appello e di Cassazione che avevano assolto per gli stessi fatti l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, fattosi saggiamente giudicare col rito abbreviato.

Onore, quindi, agli alti ufficiali dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, che -contattando mafiosi nella stagione delle stragi mirando sì a prevenire altri attentati ma soprattutto a catturare i latitanti che guidavano Cosa Nostra, a cominciare da Totò Riina, morto come Bernardo Provenzano in carcere- hanno compiuto fatti che non costituiscono reati. Così hanno riconosciuto e stabilito i giudici.

L’ex senatore Marcello Dell’Utri, accusato praticamente di avere agito su Berlusconi impegnato in politica e al governo a favore della mafia, “non ha commesso il fatto”.

Chiara nelle sue conclusioni in appello, questa vicenda della presunta trattativa, che in primo grado rischiò anche di coinvolgere il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, finito intercettato con i suoi collaboratori e praticamente sospettato di avere in qualche modo cercato di influire su indagini e processo, non è forse destinata a chiudersi. Temo che la pubblica accusa si ostinerà a tenere aperto il processo ricorrendo alla Cassazione, anche se appare obiettivamente difficile ch’essa si contraddirà rispetto alle valutazioni che la portarono l’anno scorso a respingere il ricorso contro l’assoluzione in primo e secondo grado di Mannino. Dalle cui preoccupazioni, per essere entrato nel mirino della mafia, decisa ad ucciderlo, sarebbero partite le iniziative scambiate dalla Procura della Repubblica di Palermo per una trattativa neppure chiamata così ma nascosta dietro la violenza e minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.

La pretesa di riscrivere la storia del Paese con i processi è una vecchia abitudine di certi inquirenti che nei fatti non amministrano giustizia ma fanno politica, o storicismo abusivo.

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Se i cinghiali a Roma potessero anche votare, e non solo passeggiare…

Dal Corriere della Sera

Abituati ormai a trovarceli accanto fra cassonetti e auto, ma anche sulle strisce pedonali, impegnati ad attraversale con maggiore disciplina degli uomini, delle donne e dei trans, inoffensivi con chi li lascia circolare in pace, e non fa come lo scorbutico Massimo Lopez, inseguito minacciosamente da uno ch’egli aveva cercato di contrastare; abituati, dicevo a trovarceli tra i piedi dappertutto, proviamo ad immaginare che i cinghiali a Roma si siano conquistati anche il diritto al voto, naturalmente nelle modalità consentite alla loro specie. Che d’altronde si è appena guadagnata l’attenzione e la simpatia di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera, che ha offerto in prima pagina agli ungulati romani il caffè di giornata, e di Mattia Feltri sulla Stampa, col suo buongiorno quotidiano.

Dalla prima pagina del Messaggero

Fra i quattro candidati a sindaco appena messi insieme in prima pagina, anche qui, dal Messaggero di Francesco Gaetano Caltagirone, un editore ben educato che non vede l’ora di complimentarsi con chiunque di loro dovesse vincere la partita capitolina, i cinghiali almeno al primo turno dovrebbero votare per la sindaca uscente Virginia Raggi. La quale ha reso loro la vita facilissima sulle strade e nelle piazze della città, ordinando o comunque consentendo ai vigili urbani, cioè alla Polizia di Roma Capitale, come si dice ormai in gergo anche burocratico, di lasciarli  passare  e fare quello che vogliono, senza un calcio, un fischio, un colpo di pistola a salve, e tanto meno un’annotazione di targa per multarli, visto che vanno a piedi, non hanno documenti e neppure una targa appesa al codino. Caspita, una sindaca così cortese e comprensiva dove mai avrebbero potuto trovarla questi animali?

Ma, diavola di una donna, o dell’uomo che le ha suggerito questo tipo di difesa dagli attacchi degli sprovveduti cittadini critici o arrabbiati consultando leggi, decreti, ordinanze, sentenze e quant’altro, la Raggi ha voluto cercare di scaricare responsabilità e meriti di tanta generosa accoglienza sulla regione. Al cui presidente Nicola Zingaretti, del Pd, lo stesso partito del concorrente sindaco ed ex ministro Roberto Gualtieri, sarebbe spettato e spetterebbe ancora l’onere di un eventuale intervento, chiamiamolo così, di bonifica o di prevenzione. La cui omissione dovrebbe pertanto indurre i cinghiali ad un minimo di gratitudine, se non alla gratitudine maggiore. E invece, poveretti, rischiano di trovarsi in un imbarazzo fottutissimo se nel ballottaggio del 17 ottobre la partita capitolina se la dovessero giocare proprio la Raggi e lo zingarettiano Gualtieri, alla faccia del candidato del centrodestra Enrico Michetti, sicuro invece di arrivarci con quel po’ po’ -rigorosamente staccato- di campagna elettorale che gli sta facendo Giorgia Meloni con quelle labbra dipinte di rosso chiaro giusto per smentire che le piaccia invece il colore nero.

Non parlo poi di quell’altro candidato -l’ex ministro, pure lui, Carlo Calenda- che sembra il più sfigato di tutti per un paradossale contrasto tra competenza, che è obbiettivamente altissima, e seguito elettorale, che risulta non dico scarso, ma insufficiente a fronteggiare con qualche seria possibilità i concorrenti. Capita spesso che in politica, quando ci si sottopone al voto, la competenza valga poco. Non a caso uno furbo come Mario Draghi non si è mai lasciato tentare in vita sua da una campagna elettorale. E non cercherà di farlo certamente adesso, alla scadenza ordinaria o anticipata di questa strana legislatura, la più pazza della Repubblica.

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