Mario Draghi unico italiano nella lista di Time, alla faccia di Travaglio

Di fronte al Mario Draghi in equipaggiamento già invernale che fa, sulla prima pagina del solito Fatto Quotidiano, il gesto poco urbano  dell’ombrello contro sindacati, partiti e quant’altri che contrastano o pongono sempre nuove condizioni al viaggio intrapreso dal presidente del Consiglio sulla strada della massima diffusione possibile di vaccini e green pass, mi era venuta la tentazione di opporre alle critiche, e spesso anche al livore, di Marco Travaglio e amici la presenza del presidente del Consiglio in carica nella lista delle 100 persone più famose e influenti appena diffusa dalla rivista americana Time. Che, magari, avrà pure inserzioni pubblicitarie di produttori di vaccini e simili, come al Fatto stanno forse già cercando di scoprire per mettere altra legna nel fuoco della polemica usuale contro l’ex presidente della Banca Centrale Europea associato da Sergio Mattarella al “Conticidio”, come lo chiamano da quelle parti, ma rimane il Time, con i suoi tre milioni e più di copie abitualmente stampate e vendute.

            Fate, fate pure coerentemente col nome della vostra testata quotidiana -mi veniva la voglia praticamente di scrivere- ma quel presunto incompetente di tutto fuorchè di finanza, che poi non è poco, resta l’unico italiano per tre volte comparso nella lista di Time negli ultimi anni. Di lui la segretaria al Tesoro americana Janet Yellen ha detto, spiegandone l’influenza, che gli Stati Uniti sono “grati” di averlo trovato “di nuovo come partner”, dopo gli anni in cui salvò l’euro dalla sua postazione di Francoforte.

Sul Corriere della Sera

Ma il caffè di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera mi ha un po’ guastato la metaforica colazione che consumo con la rassegna stampa di prima mattina perché, nei panni involontari di Travaglio, d’altronde ospite quasi fisso della televisione dell’editore del giornale milanese di via Solferino, e senza peraltro citare neppure Draghi, con furbizia proprio da Fatto Quotidiano, ha un po’ macchiato, diciamo così, la lista di Time. Che contiene anche la coppia più controversa, diciamo così, della famiglia reale inglese: Harry Windsor e Meghan Markle. Che obiettivamente si stenta così, su due piedi, e non per fare un piacere alla nonna regina ancora d’Inghilterra con i suoi cappellini e le sue borsette, a considerare davvero, come scrive scetticamente Gramellini, “tra le cento persone più influenti del pianeta, in una lista che comprende scienziati, economisti, capi di governo, stelle della musica e leggende dello sport”.

            “Quale merito ci sarebbe -ha chiesto impietosamente Gramellini spargendo altro caffè sulla lista di Time– nel far parte di una famiglia reale e poi uscirne, sbattendo la porta, per incassare i proventi di una popolarità acquisita esclusivamente in virtù dell’appartenenza a quella famiglia”, pur considerando “le iniziative di beneficenza che accomunano l’intero jet  set internazionale”?

Titolo di Gramellini

            E’ difficile non condividere -lo ammetto- il “dispiacere” di Gramellini, come lui stesso lo ha chiamato nella sua protesta contro “i sopravvalutati”, “che la fuffa patinata eserciti ancora un fascino così grande”, considerando i tanti che “anche dell’età di Harry e Meghan, con le loro imprese influenzano davvero le persone che le circondano, ma non sono abbastanza “glamour” per intercettare la curiosità di una piccola frangia di rabdomanti mediatici sganciati dalla realtà che si arroga il diritto di decidere chi piace agli altri”.

Eppure la presenza di Draghi in quella lista mi consola lo stesso, pur avendo sorbito un amaro caffè.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Pesa su Giuseppe Pignatone la sconfitta nell’accusa di Mafia Capitale

Titolo del Dubbio

Giuseppe Pignatone, che da ottobre del 2019 presiede il tribunale del Vaticano dopo 45 anni di carriera giudiziaria in Italia conclusasi alla guida della Procura di Roma, non ha voluto lasciare solo il suo ex collega, ed anche ex consigliere superiore della magistratura, Piercamillo Davigo nell’attribuzione agli avvocati di buona parte, se non della maggior parte, dei guai della giustizia in questa nostra sfortunata Repubblica, quanto meno. Dove, per esempio, si sono dovuti aspettare 51 anni -dal 1948 al 1999- per vedere scritto nella Costituzione, modificando l’articolo 111, che il processo deve avere una “ragionevole durata”.

 Sono occorsi altri 22 anni perché un governo -quello in carica, molto atipico e fortunatamente presieduto da Mario Draghi- tentasse davvero con una legge delega ora all’esame del Senato, dopo l’approvazione della Camera, di dare concretezza a quella generica durata “ragionevole”, stabilendo quanti anni precisamente debba durare un processo in appello e quanti in Cassazione per non estinguersi nella “improcedibilità”. Che è la trovata “geniale”, come l’ha definita il buon Carlo Nordio, della guardasigilli Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, per ripristinare con altro nome la prescrizione disinvoltamente abolita all’esaurimento del primo grado di giudizio dal primo governo -gialloverde- di Giuseppe Conte, col grillino Alfonso Bonafede alla testa del Ministero della Giustizia. E con l’avvocato, senatrice e ministra Giulia Bongiorno, responsabile dei problemi della giustizia per la Lega, obbligata dal “capitano” Matteo Salvini a ingoiare il rospo originariamente definito “una bomba atomica”, pur di far durare quel governo qualche mese in più.

Non volete chiamarla quanto meno sfortunata, come dicevo prima, una Repubblica costretta ad arrivare così tardi e così male, se davvero vi arriverà senza altre sorprese, ad un minimo di decenza in materia di durata dei processi? E ciò, peraltro, grazie ai vincoli in qualche modo esterni dell’Unione Europea, che ha condizionato i finanziamenti del piano della ripresa, dopo il disastro pandemico, alla realizzazione di certe riforme, fra le quali quella appunto per la durata davvero ragionevole e certa del processo.

La responsabilità di questo ritardo, definiamolo così, per Davigo e ora anche per Pignatone, autore di un libro fresco di stampa anche sul modo in cui egli ha cercato di “fare giustizia” nella sua lunga carriera, non sarebbe solo dei magistrati, dei loro ritmi di lavoro, abitudini e quant’altro, visto che gran parte delle prescrizioni è sempre maturata nella fase preliminare del processo, in corso cioè di indagini, ma pure o soprattutto degli avvocati. E non per un presunto poltronismo ma per il loro numero ritenuto esorbitante, che praticamente abbasserebbe la qualità delle prestazioni professionali, e li costringerebbe di fatto, volenti o nolenti, a farsi concorrenza sui modi con i quali tirare alle lunghe i processi per salvare i loro clienti, o assistiti, con la prescrizione -e domani con la improcedibilità- anziché con una incerta sentenza di assoluzione.

Piercamillo Davigo a la 7
Il libro di Pignatone

Pignatone è andato giù contro gli avvocati ancora più di Davigo puntando il dito non solo contro i 240 mila difensori che esercitano in Italia rispetto ai 50 mila in Francia, o  contro i 380 per ogni centomila abitanti in Italia rispetto ai 100 in Francia, ma anche contro i 55 mila avvocati abilitati in Italia al processo in Cassazione rispetto ai 50 in Germania. Dove quindi sarebbero gli stessi avvocati a fare da filtro per non intasare di ricorsi pretestuosi l’ultimo grado di giudizio. Da noi invece la Cassazione sarebbe travolta dallo stesso numero dei difensori abilitati a ricorrervi. E sotto questo profilo -par di capire- neppure la riforma Cartabia, chiamiamola così, riuscirà a sanare l’amministrazione della giustizia. Occorrerebbe non dico eliminare gli avvocati, ma almeno rendere loro la vita durissima, ancor più di quella che s’intravvede nella quasi indigenza diffusa di ventimila euro l’anno di reddito che Davigo è appena tornato a sottolineare in televisione, alla riapertura del salotto televisivo di martedì su la 7, dove già era di casa, o quasi, prima dell’interruzione estiva.

Non vorrei essere o sembrare scortese nei riguardi di Pignatone, e della fiducia accordatagli da Papa Francesco importandolo al di quà delle Mura, ma personalmente mi sento grato agli avvocati e alla Cassazione per avere smentito la rappresentazione fatta della Capitale dalla Procura allora guidata dallo stesso Pignatone, come di una terra praticamente conquistata dalla Mafia, con la maiuscola.

E’ stata una rappresentazione notoriamente ridimensionata nei processi ad un’associazione a delinquere di notevole consistenza, per carità, ma comune. La cosiddetta “Mafia Capitale”, o “Mondo di mezzo”, come preferirono chiamarla altri, sempre dalle parti della Procura romana, decollata nel 2015 con arresti e incriminazioni clamorose, si è purtroppo tradotta nel miracolo politico della conquista del Campidoglio da parte dei grillini nelle elezioni amministrative del 2016, propedeutiche a quelle politiche del 2018. Che portarono il MoVimento 5 Stelle al 33 per cento dei voti, facendogli ereditare la postazione centrale che fu della Dc, resistita nella cosiddetta prima Repubblica anche all’avanzata del Pci guidato dal mitico Enrico Berlinguer.

Ora sono curioso di vedere, svanita e smentita Mafia Capitale, e simili, che fine farà, tra le macerie peraltro del suo MoVimento dimezzato nei sondaggi, e in tutte le elezioni intermedie svoltesi dopo il 2018,  la ostinata ricandidatura  della sindaca Virginia Raggi sostenuta dal ribelle e ormai ex pentastellato Alessandro Di Battista ma anche dal nuovo presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte.  

Pubblicato sul Dubbio

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