A lezione da Lenin con Paolo Mieli per non fare riforme importanti

Ci sono voluti quattro giorni ma alla fine si è levata una voce diversa dall’editoriale di incoraggiamento a Giorgia Meloni comparso sul Corriere della Sera come una specie di messaggio di Capodanno a firma dello storico Ernesto Galli della Loggia. Si è levata dall’interno dello stesso Corriere con un editoriale a firma di un altro storico, e in più ex direttore dello stesso giornale, Paolo Mieli. Che ha suonato un’altra musica, ma alla sua maniera, cioè con misura, sino ad evitare una polemica diretta col suo collega e amico Ernesto, neppure citato come per dire di avere voluto prendere le distanze dalla Meloni a prescindere dall’editoriale del 3 gennaio, semplicemente affrontando l’argomento del governo da un’altra ottica. E partendo tanto da lontano da arrivare in Russia e al 4 marzo 1923, quando un Lenin ormai già colto da un ictus ma lucido abbastanza per rendersi conto di avere  forse un pò troppo esagerato con la sua rivoluzione, in una lettera alla Pravda esortò i compagni ad una certa cautela, addirittura da “autentica cultura borghese”: parole sue, di Lenin, non del mio amico Paolo. 

Alla Meloni l’ex direttore del Corriere della Sera ha consigliato di adottare alla guida del governo, a circa due mesi dal suo decollo, il “meglio meno, ma meglio” proposto da Lenin ai compagni, avendo “messo -le ha rimproverato Paolo- troppa carne sul braciere”: tanta da essere stata costretta a “retromarce con impressionante regolarità”. 

In particolare, la presidente del Consiglio ha messo insieme sul terreno poco saggiamente “tre riforme gigantesche” come quelle “dell’autonomia differenziata, della giustizia e costituzionale”, intesa quest’ultima a “irrobustire il corpo istituzionale del nostro Paese con una potente iniezione di presidenzialismo”. Proposito, quest’ultimo, “in sé non disdicevole”, ha ammesso Mieli, “purché sia sia in possesso di idee chiare, si possa contare su una maggioranza sufficientemente compatta e si disponga di una strategia per coinvolgere una parte consistente dell’opposizione”. Sono condizioni delle quali Mieli dubita, quanto meno, l’esistenza nonostante in tema di tenuta della sua maggioranza la Meloni mostri di considerarla “una falange oplitica”, cioè granitica. 

Più ancora della maggioranza per niente o meno “oplitica” -insisto- di quanto la Meloni ritenga, Mieli ha segnalato alla premier la debolezza dell’opposizione: in particolare del Pd, senza il cui concorso certe cose importanti come il presidenzialismo, in qualsiasi variante, o la riforma della giustizia da compiere mettendo mano anche per essa nella Costituzione, non si potrebbe realisticamente pensare di realizzarle. 

Ma mettiamoci, d’accordo, caro Paolo. Se l’opposizione è forte nel contrasto ad un vero progetto riformatore questo è precluso. Se l’opposizione è debole, proprio per questo, il progetto è precluso lo stesso. Diciamo allora chiaro e tondo, senza arrivare a Lenin e scomodarne la mummia, che le riforme vere in Italia non si possono fare.

Ripreso da http://www.policymakrmag.it e http://www.startmag.it

Lunga vita a Mario Draghi, presidente emerito del Consiglio

Leggevo ieri con la dovuta e meritata attenzione sul nostro Dubbio l’interpretazione politica e un pò anche psicanalitica, da parte del buon Aldo Varano, delle recenti sortite critiche o solo preoccupate del ministro della Difesa Guido Crosetto sugli effetti della linea data alla Banca Centrale Europea dalla presidente francese Christine Lagarde, notoriamente succeduta all’italiano Mario Draghi. E pensavo sempre di più al colloquio svoltosi  il giorno prima fra lo stesso Draghi e il suo amico e attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ai margini dei funerali di Papa Benedetto XVI. Un colloquio che aveva interrotto le preghiere del ministro, ritratto dai fotografi con un rosario in mano, in memoria dell’ex o emerito Pontefice Joseph Ratzinger, nella cui lingua viene chiamato nello stesso nome il debito e il peccato. E di peccati, intesi  anche come debiti, l’Italia è notoriamente stracolma, pur nella distinzione politica, economica e, direi, anche scientifica che Draghi fa, al singolare, fra debito buono e cattivo. 

Mi chiedevo, sempre dividendomi fra la lettura di Varano e l’immagine di quel colloquio fra l’ex presidente del Consiglio e il tuttora ministro, se i due avessero avuto la voglia e il tempo di una pur rapida riflessione sui timori diffusi ai quattro venti da Crosetto,  fra i quali Aldo ha intravisto -non so francamente se più a ragione o a torto- un certo rimpianto di Draghi a Palazzo Chigi. Dove pure è arrivata in ottobre, sull’onda di una netta vittoria elettorale, Gorgia Meloni: la prima donna salita così in alto nella storia d’Italia ma soprattutto, per le nostre riflessioni odierne, amica, estimatrice e capa del partito del ministro della Difesa dopo le sue esperienze di liberale, democristiano e forzista. Un ruolo -quello di ministro della Difesa “in guerra contro Francoforte”, lo ha ha un pò attaccato e sfottuto l’impertinente manifesto- che Crosetto ha accettato, pur rimettendoci un bel pò come imprenditore, solo per non sottrarsi alle insistite richieste e attese della premier condivise dal presidente della Repubblica, che l’ha nominato.

Su una cosa comunque sono tentato amichevolmente di dissentire da Varano: sul condizionale di quel Draghi che “servirebbe ancora” all’Italia e al suo governo “per contare in Europa”, com’è scritto anche nel titolo apposto al suo articolo. Dove, in verità, si va anche oltre perché si prospetta, si auspica, si ventila e quant’altro un altro governo Draghi, cioè un suo ritorno a Palazzo Chigi. Ma a mio modestissimo e discutibilissimo avviso, per carità, che Draghi per primo contesterebbe con segni anche di insofferenza se venisse interpellato, egli di fatto ancora si avverte nella sede della Presidenza del Consiglio, anche se non si vede e non si sente. 

La continuità fra il governo Draghi- al netto di ciò che gli impediva o pretendeva inutilmente Giuseppe Conte alle spalle e persino contro i ministri che pure rappresentavano il suo movimento- è ancora più reale e significativa di quanto non appaia allo stesso Conte, che lo ha gridato anche nell’aula di Montecitorio. E lo avrà ripetuto alla sua compagna nella costosa e legittima  vacanza -per carità-  che si è appena concessa a Cortina d’Ampezzo scandalizzando solo gli stupidi e gli ipocriti. Come sarebbero quelli che ancora oggi avrebbero da ridire sui dieci giorni trascorsi da Lenin a Capri nel 1910.   

Anche a costo di sembrarvi irriverente e persino blasfemo, e con tutti gli auguri di lunga vita che egli merita, avendo peraltro soltanto 75 anni rispetto ai 96 non compiuti da Ratzinger, Mario Draghi meriterebbe di essere considerato emerito com’è stato Papa Benedetto XVI dopo le sue volontarie e clamorose dimissioni propedeutiche al pontificato di Jorge Mario Bergoglio, Francesco per i fedeli. Il quale è stato fortunato nella successione a Benedetto XVI come Giorgia Meloni da presidente del Consiglio, e vincitrice delle elezioni anticipate dell’anno scorso, dopo l’iniezione di fiducia nell’Italia procurata all’estero dalla saggia decisione di Sergio Mattarella nel 2021 di precettare, praticamente, l’ex presidente della Banca Centrale Europea affidandogli la formazione di un governo particolarissimo, nella impossibilità di mandare alle urne in piena pandemia un Paese letteralmente sfuggito di mano a tutti, ma proprio tutti i partiti avvitatisi attorno o contro l’ex, poi ritrovatosi, avvocato del popolo. O “punto di riferimento” più o meno alto “dei progressisti” promosso in tandem dall’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti e da quella specie di oracolo della sinistra che ancora si considera, forse, col suo ultimo libro il peso massimo Goffredo Bettini.

Pubblicato sul Dubbio

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