L’assordante polemica sulle nomine del nuovo governo consentite da una legge del 2001

Quella che il Corriere della Sera ha chiamato con una certa sobrietà, tutto sommato,  “ondata di cambi ai vertici” di “Ministeri e agenzie statali” per il meccanismo noto un pò in tutto il mondo come “spoils system”, tradotto in italiano in una specie di bottino del vincitore di turno nell’eterna corsa al governo, è diventata sulla prima pagina di Repubblica “la lottizzazione dei Palazzi”. O, gridato ancora più forte e riferito direttamente alla presidente del Consiglio, “Meloni pigliatutto”. 

Il giornale già corazzata di una sinistra di lotta o di governo, secondo i casi non necessariamente distinti perché già ai tempi di Enrico Berlinguer il Pci si proponeva come un partito insieme di lotta e di governo, è stato inseguito persino dal Foglio. Che scendendo dall’Olimpo dove spesso si sente per saggezza e altro ha evocato un “terremoto” in corso e “la scopa di Meloni”. E’ vero che nel titolo c’è anche una domanda retorica contro la presunzione che il potere di fare e disfare nomine sia “solo” del Pd, o di ciò che ne sta rimanendo nel percorso congressuale, ma c’è con tanto di virgolette. Che in pratica attribuiscono la domanda ad altri, forse malintenzionati e per niente credibili, non al Foglio. Dove del resto da qualche giorno, se non da qualche tempo, non si fanno più certi sconti da cui sembrava tentato quanto meno il direttore Claudio Cerasa scommettendo sulla capacità e volontà della capa della destra italiana, oltre che del governo, di evolvere, maturare, rinsavire.

Nell’ultimo numero dell’anno ormai passato, per esempio, facendo un bilancio dei meno di due mesi trascorsi a Palazzo Chigi dalla prima inquilina riuscita ad arrivarvi, Il Foglio titolava in rosso su “i sette vizi di Meloni”. E li elencava così nel sommario, in nero: “Imbarazzo sui vaccini, europeismo claudicante, complottismo contro i francesi e sull’immigrazione, disprezzo per le banche e per l’innovazione, evasione dalla realtà sul fisco”. 

Non più tardi dell’altro ieri, 3 gennaio,  questa volta in turchese, Il Foglio se la prendeva con quello della Meloni come “un governo contro i giovani”, che sarebbe stato addirittura redarguito fra le righe del suo messaggio di Capodanno letto in piedi al Quirinale dal presidente della Repubblica. Che invece a me, ingenuo o probabilmente rincitrullito secondo i canoni foglianti, era sembrato un messaggio di sostegno e incoraggiamento alla Meloni, non a caso affrettatasi a telefonare a Mattarella ringraziandolo, per via della democrazia ormai “compiuta e matura” con la formazione del governo in carica. Il quale peraltro con le nomine in cantiere o già disposte non sa facendo altro che applicare – come ha spiegato sul Corriere della Sera Federico Fubini- “l’articolo 19, comma 8 della legge Bassanini sulla pubblica amministrazione del 2001”. In forza del quale “gli incarichi di funzione dirigenziale cessano decorsi 90 giorni dal voto di fiducia del governo”. Cioè, nel nostro caso, mentre scrivo, fra 19 giorni:  il 24 gennaio.

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La vernice rimossa dalla facciata del Senato e quella ch’è rimasta a imbrattare l’interno

Il Senato, quello non di chissà quale accademia ma della Repubblica, più contenuto della Camera ma presieduto dalla seconda carica dello Stato, e quindi un pò il ramo   nobile del Parlamento, è stato imbrattato più volte, almeno tre, in questi primi ma poco fausti giorni del nuovo anno. 

La prima volta dimostranti armati di vernici al servizio -dicono- della causa dell’ambiente e simili hanno imbrattato la facciata di Palazzo Madama approfittando “vigliaccamente” di una rete di sorveglianza e di sicurezza minore rispetto ad altre che proteggono Montecitorio, o Palazzo Chigi, o il Quirinale, come ha ricordato il presidente Ignazio La Russa. Che ha naturalmente deciso di muoversi per ridurre lo svantaggio improvvidamente accumulato dai suoi troppo ottimisti predecessori. Come dargli torto? Ma i soliti, chiamiamoli così, ci hanno già provato lo stesso.   

Uno dei giornali più orgogliosamente nuovi e proiettati sul futuro, tanto da essere stato chiamato Domani dal suo editore Carlo De Benedetti, stanco della improvvida rinuncia dei suoi eredi alla ben più solida e diffusa Repubblica, ha diviso la sua prima pagina dopo il fattaccio fra una cronaca lacrimevole e un commento di solidarietà agli autori della protesta, realizzando così un secondo, sostanziale imbrattamento.  

“I politici -raccontava il titolo di cronaca dell’”azione contro il Senato”- hanno più paura di un pò di vernice che della crisi climatica”- “Un gruppo di militanti di Ultima generazione -continuava il racconto sommario dell’accaduto, con tutte le maiuscole e le minuscole al loro posto- ha imbrattato la facciata di palazzo Madama. I ragazzi rischiano multe e carcere. Intanto il governo Meloni annuncia nuove misure di sicurezza”. E che altro doveva fare?, mi chiedo considerando che le indagini e tutto il resto è competenza della magistratura rigorosamente libera e autonoma. 

“Hanno ragione loro a sposare la superficie dell’indifferenza”, gridava il titolo di un editoriale-arringa “in difesa degli attivisti” firmato dal direttore in persona, probabilmente gonfiando di giovanilismo il petto dell’anziano editore. Che i suoi anni, del resto, se li porta meravigliosamente. 

Il terzo imbrattamento, volontario o casuale che sia, è quello consumatosi con la denuncia fotografica, da parte di due giornali stavolta di area di destra, Libero e Il Tempo, di un Senato disertato dalle opposizioni nella seduta convocata, pur ad alberi di Natale ancora esposti e illuminati nelle case private e pubbliche, per l’annuncio, arrivo, deposito e quant’altro del decreto legge ormai abituale dal titolo, o soprannome, che parla da solo:  mille proroghe, in due o anche in una sola parola. 

Un’aula parlamentare desolatamente vuota, in tutti o in una parte cospicua dei suoi settori, fa sempre una certa impressione e, se volete, anche tristezza naturalmente. Ma imbrattarla di una malizia- direi- di sapore qualunquistico, nel segno di un’antipolitica che possiamo considerare indifferentemente figlia o madre dell’antiparlamentarismo, non mi sembra cosa di cui potersi vantare. E tanto meno scambiare per uno scoop. 

Si dirà in difesa di questi altri “attivisti” -per rimanere nel solco del direttore di Domani a proposito dei primi imbrattatori- che la seduta di cosiddetto annuncio o arrivo di un decreto legge, da convocare entro cinque giorni, è imposta dall’articolo 77 della Costituzione in un testo concepito e scritto nella presunzione di una effettiva, reale straordinarietà e urgenza dello strumento “temporaneo” -dice anche questo la norma costituzionale- del decreto legge. Ma il deposito, annuncio e quant’altro di simile non significa discussione e votazione in aula, essendo di due mesi il tempo lasciato alle Camere dalla stessa Costituzione per l’approvazione, conversione o come altro volete chiamare il sì  del Parlamento. Questo lo capisce anche un alunno di prima elementare, senza bisogno di arrivare all’Università e alla laurea in legge, e tanto meno alla cattedra. 

Se il livello di alfabetizzazione giuridica è sceso così in basso nella politica sia di chi la fa sia di chi la racconta e la commenta, è forse il caso di modificare l’articolo 77 della Costituzione con precedenza assoluta, priva di arrivare alle vette del presidenzialismo, e sue varianti, riproposto dalla presidente del Consiglio. Che vi è arrivata peraltro non per prima -come da donna a Palazzo Chigi- ma per ultima in una lista di presidenzialisti aperta già nell’Assemblea Costituente dal giurista e azionista Piero Calamandrei. Questo lo ricordo anche a quelli che in questo 2023 appena cominciato hanno l’aria di salire in montagna, come i padri o nonni partigiani della Resistenza, se davvero si dovesse arrivare all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, o del Consiglio. 

Pubblicato sul Dubbio

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