Svolta vera al Consiglio Superiore della Magistratura con Fabio Pinelli vice presidente

L’elezione dell’avvocato leghista Fabio Pinelli a vice presidente del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, avvenuta al terzo scrutinio con 17 voti contro i 14 andati al costituzionalista Roberto Romboli, candidato praticamente dal Pd, segna davvero una svolta nell’organismo al quale l’articolo 105 della Costituzione affida, testualmente, “le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Cioè l’autogoverno della categoria che da almeno una trentina d’anni, con le buone o le cattive, con leggi approvate dal Parlamento e con abitudini assunte spontaneamente fra sporadiche e mai decisive proteste dell’interessata, ha finito per prevalere sulla politica. 

Il fatto che al vertice pratico del Consiglio Superiore, vice del presidente voluto dalla Costituzione nella persona del capo dello Stato, sia stato eletto l’esponente laico, cioè di elezione parlamentare, dell’area che più ha protestato contro l’esautoramento della politica, rivendicandone il primato, parla da solo. A rafforzarne il significato ha contribuito anche il presidente della Repubblica indicando esplicitamente il suo nuovo vice al Palazzo dei Marescialli come “il punto di riferimento di tutto il Consiglio”. 

Ancora più significativa politicamente e istituzionalmente è l’elezione dell’avvocato Pinelli, e la bocciatura del candidato del Pd Romboli, alla luce delle polemiche provocate dal proposito enunciato in Parlamento dal ministro della Giustizia Carlo Nordio di cambiare registro. E, fra l’altro, di togliere dalla testa dei pubblici ministeri, ch’egli conosce benissimo per averne fatto parte nella carriera giudiziaria, di sottomettere il Parlamento, e non solo i loro imputati. Come è avvenuto di recente a Milano in un processo nel quale la pubblica accusa, che ne dovrà ora rispondere, ha evitato di rispettare l’obbligo di portare anche le prove a discarico appunto dell’imputato. Che era l’Eni, assolto. 

Possono ora ben considerarsi quanto meno indebolite le polemiche contro Nordio, esterne e velatamente emerse anche all’interno della maggioranza forse per esigenze soltanto tattiche, essendo provenute dalla Lega impegnata a sostenere la candidatura di Pinelli a vice presidente del Consiglio Superiore.   

Del resto, i leghisti hanno sperimentato sulla pelle del loro leader Matteo Salvini l’uso politico della giustizia con quell’intercettazione, ai tempi dello scorso Consiglio Superiore, di magistrati che parlavano fra di loro della necessità di indagare e processare comunque l’ex ministro dell’Interno Salvini, a prescindere dalla consistenza del reato contestatogli di sequestro di persona nell’azione di contenimento dell’immigrazione clandestina via mare. 

Il presunto, desiderato declino del governo, a parte numeri e fatti

Sarò tutto vero, per carità, lo scenario negativo per il governo ricavato sfogliando a prima vista i giornali di oggi, di vario e persino opposto  orientamento politico. Sarà vero, in particolare, che per lo sciopero dei benzinai in corso o per altro ancora il partito della Meloni “rallenta l’avanzata”, come il Corriere della Sera ha titolato il pezzo-sondaggio di Nando Pagnoncelli. Che nel testo sottolinea anche i tre punti di gradimento persi in un mese dal governo e i cinque dalla presidente del Consiglio. O l’esecutivo “è in tilt”, come titola La Stampa. 

Non in tilt ma “in riserva” o “a secco”, hanno titolato, sempre sul governo con riferimento allo sciopero dei benzinai, il Giornale della famiglia Berlusconi oggi e il manifesto ieri. 

Diamolo pure per “spiaggiato”, sempre il governo, sul problema delle concessioni balneari sottolineato in rosso dal Fatto Quotidiano. E Matteo Salvini arcistufo- come lo ha rappresentato  Stefano Rolli sul Secolo XIX- di tirare in camicia verde e barba marrone il carrettino della Meloni, intercettata intanto dalla Stampa a lamentarsi di quella “spina su tutto” che sarebbe diventato il loquacissimo, incontenibile Silvio Berlusconi. Il quale si è messo adesso anche a scavalcarla nella difesa o adozione del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Al cui cui posto il Cavaliere voleva invece l’ex presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, dirottata malvolentieri al dicastero delle  eventuali riforme. 

Di Nordio, poi, sarà anche vero il mezzo schiaffo, sotto forma di “messaggio” implicito, secondo Repubblica, rifilatogli dal capo dello Stato esaltando l’indipendenza della magistratura nel commiato, finalmente, dal vecchio Consiglio Superiore e nell’insediamento del nuovo al Quirinale. “Mattarella molla Nordio” preferendogli “il partito dei pm”, ha titolato il deluso Piero Sansonetti sul Riformista. 

Sarà tutto vero, ripeto, a parte numeri e fatti però. A parte, per esempio, il 30,5 per cento dei voti assegnato dallo stesso Pagnoncelli al partito della Meloni e il gradimento del 51 per cento al governo e del 53 a lei personalmente. Che non mi sembrano francamente da buttare via coi tempi che corrono, e con la benzina che -secondo la vignetta di Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno- può salire di prezzo anche per effetto dello sciopero dei benzinai, I quali, dal canto loro, tutti o quasi potenziali elettori del centrodestra in genere e della Meloni in particolare, avrebbero pur confermato la serrata di fronte a quel mezzo pifferaio del ministro (meloniano) dello Sviluppo Economico Adolfo Urso, ma si sono spaccati- ha titolato Libero– sulla durata della protesta. Che per alcuni sarà di 48 ore e per altri sta già cessando: spaccati, del resto, come le opposizioni al governo, che viene così aiutato ad andare avanti, con la Meloni e Nordio regolarmente  ai loro posti.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Omessa l’azione del “nostro generale” anche per i pentiti di mafia

Ho molto esitato prima di decidermi a scrivere della fiction televisiva sul prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa morto sul campo della lotta alla mafia –Il nostro generale- sentendomi un pò parte in causa per il torto che ritengo gli sia stato fatto. E ciò pur tra i tanti meriti giustamente riconosciutigli, specie quelli acquisti nella lotta alle brigate rosse e poi sommersi, nella memoria, dalle emozioni per il tragico esito della sua ultima missione al servizio dello Stato.

Mi sono alla fine deciso a scriverne con un compromesso con me stesso: quello di non raccontare come e perché sono parte interessata all’omissione che ho avvertito nella ricostruzione degli ultimi mesi, direi anche giorni di vita del generale. Che non furono contrassegnati soltanto dagli incresciosi rapporti polemici col ministro democristiano dell’Interno Virginio Rognoni, un pò renitente ai maggiori poteri che il prefetto rivendicava per svolgere al massimo delle sue capacità le funzioni finalizzate alla lotta alla mafia. Nei cui riguardi il generale temeva di apparire debole, nonostante il prestigio di cui godeva nel Paese: debole, ripeto, ma soprattutto solo. Che è la condizione peggiore in cui si possa trovare un combattente contro la criminalità organizzata di quel tipo.  

In questa ricerca persino “ossessiva” di maggiori poteri -come una volta si lasciò scappare lo stesso Rognoni parlandone col presidente del Consiglio Giovanni Spadolini- il prefetto chiese ed ottenne anche l’aiuto mediatico di Giorgio Bocca con quell’intervista a Repubblica opportunamente ricostruita e valorizzata nella fiction televisiva. Che, purtroppo per il generale, finì però per ottenere l’effetto opposto a Roma perché al Viminale ebbero la sensazione di un eccesso di personalizzazione del problema. 

Ebbene, proprio in quei giorni, e in quelli immediatamente successivi, oltre che  per i suoi poteri personalie per le misure legislative che avrebbero dovuto supportarli, il generale si prodigò perché fosse sperimentata un’applicazione alla lotta alla mafia della legislazione cosiddetta premiale adottata con successo nella lotta al terrorismo. Che non si sarebbe certamente vinta senza il contributo dei pentiti, a cominciare dal più famoso che fu Patrizio Peci. Il quale peraltro, destinato a perdere barbaramente per ritorsione il fratello Roberto, era stato convinto a parlare proprio dal generale dalla Chiesa. Che si vantava di averlo convinto, dopo la cattura, parlandogli -diceva ai sottoposti- “da militare a militare”. E rivelandogli le scorrettezze e persino i tradimenti riservatigli dai compagni di lotta. 

Nel sostenere l’adozione di una legislazione premiale anche per i pentiti di mafia, sopraggiunta di molto alla morte del generale ma completamente ignorata nella fiction televisiva chissà per quale ragione, il  prefetto avvertiva tuttavia il rischio -date le diverse condizioni sociali in cui i due fenomeni si erano sviluppati e operavano, i terroristi peraltro tenendosi ben lontani dalla Sicilia- di non ripetere l’esperienza di chi, pur avendo parlato senza legislazione premiale, era finito in manicomio. E il prefetto ne fece anche il nome: il palermitano Leonardo Vitale , consegnatosi nel 1973, all’età di 32 anni, nelle mani dell’allora commissario di Polizia Bruno Contrada confessando due omicidi e il tentativo di un terzo.

Il primo pentito di mafia consentì con le sue rivelazioni una quarantina di arresti, ma il processo o i processi che ne conseguirono si conclusero fallimentarmente per lui. Gli accusati furono assolti per l’ancora fortissima  omertà che copriva i mafiosi, e lui condannato a 25 anni di carcere, in gran parte scontati in manicomi criminali perché considerato pazzo. 

  L’ultima detenzione di Vitale, proveniente da Barcellona Pozzo di Gotto, fu a Parma. Da dove uscì nel 1984, circa due anni dopo l’assassinio del prefetto di Palermo. Ma ne uscì per poco perché la mafia si vendicò del suo ormai lontano tradimento, dagli effetti giudiziari peraltro contenuti, uccidendolo il 12 dicembre, prima che l’anno della liberazione passasse. Fu un’esecuzione di pena per la vittima, in applicazione delle leggi della mafia, e un avvertimento per gli altri intenzionati ad avvalersi delle norme premiali avvertite come probabili e sostenute dal generale. Che però aveva saputo seminare abbastanza nel pur poco tempo trascorso a Palermo da prefetto, e ancor più altrove nella lotta al terrorismo, per far crescere il pentitismo, pur nelle degenerazioni prodotte -bisogna ammetterlo- da una cattiva gestione del fenomeno. All’ombra del quale , con uomini ben diversi dalla stazza morale di Carlo Alberto dalla Chiesa, sono accadute nell’intreccio fra politica e mafia, o fra cronache giudiziarie e politiche,  cose da pazzi: di una follia vera, non quella attribuita al povero  Leonardo Vitale. 

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑