Conte uscito indenne da Palazzo Chigi dopo un lungo incontro con Draghi

Fotografi, telecameraman, cronisti, agenti di polizia in divisa e in borghese, persino qualche passante al quale è stato consentito di fermarsi a guardare hanno garantito l’uscita indenne di Giuseppe Conte da Palazzo Chigi dopo circa un’ora di colloquio col presidente del Consiglio, e suo successore in quell’edificio, Mario Draghi. Che non gli ha proprio torto  un capello, gli ha lasciato tutti i bottoni al loro posto sulla giacca e sui pantaloni, per quanto avesse avuto la voglia di fargli chissà che cosa dopo la gara nella quale l’ospite si era misurato con Matteo Salvini, il suo ex vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, per sbarrargli la strada del Quirinale, sino a ingoiare un altro rospo come la conferma di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. 

Titolo del Corriere della Sera

L’abito del presidente, ora, del MoVimento 5 Stelle era del tutto asciutto, pur essendo stato rappresentato dal Corriere della Sera come l’incontro del disgelo” quello svoltosi con Draghi nella sede del governo. Di solito quando disgeli qualcosa un pò di bagnato lo procuri, o lo lasci. Conte invece era tutto asciutto, ripeto: anche nel fisico, a cominciare dai capelli. 

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

Draghi e i suoi collaboratori sono evidentemente dei signori davvero, magari solo perché convinti pure loro da un vecchio proverbio che il piatto della vendetta si serve e si mangia sempre freddo, a debita distanza dai torti subiti, se sono stati davvero torti e non inconsapevoli piaceri. Già, perché non è per niente detto che sia ormai cominciato l’inarrestabile declino di Draghi sognato, per esempio, dal Fatto Quotidiano, dove ancora rimpiangono Conte a Palazzo Chigi, sognano di vederne il ritorno e intanto fotomontano in prima pagina lo stesso Draghi ai ferri corti con Mattarella, con tanto di fogli stracciati del suo discorso a Montecitorio come ripresidente della Repubblica.

Dalla prima pagina del Foglio

C’è voluta solo la malizia del Foglio, che su Draghi al Quirinale ci aveva scommesso per primo e di più, pur ammirando a suo modo l’ostinazione dell’”amor nostro” Silvio Berlusconi ad aspirarvi pure lui, per rappresentare l’incontro di Conte col suo predecessore come un tentativo del primo di strappare al secondo, come pegno di una ritrovata amicizia o qualcosa del genere, la “cacciata” addirittura del ministro degli Esteri Luigi di Maio, ottenendone invece “la blindatura”. Rimane per Conte difficile pensare di liberarsi di Di Maio nel partito neppure adesso che “Giggino ‘a cornetta”, come lo chiamano al Fatto Quotidiano, non è più uno dei “garanti” del Movimento, dimessosi proprio oggi per non dare l’impressione di volersi coprire dietro questa funzione per sottrarsi alla durezza dello scontro cominciato con l’ex presidente del Consiglio, da lui accusato di avere gestito male la vicenda quirinalizia coinvolgendo fallimentarmente come candidata l’ambasciatrice Elisabetta Belloni, responsabile dei servizi segreti. Conte può solo sperare che anche Draghi si stanchi prima o poi di lui o, solo, si convinca della convenienza politica di una rottura. Ma, francamente, questa prospettiva mi sembra ancora più improbabile di una espulsione di Di Maio dal partito o, pardon, movimento di cui è stato capo prima della reggenza di Vito Crimi e della presidenza dello stesso Conte.Più improbabile, infine, anche di un passaggio di Di Maio, appeso come Tarzan ad una corda vegetale, nel vasto cantiere centrista in allestimento ad Arcore e dintorni, affollato -temo- più da capicantiere che da  muratori. Parlo di muratori veri, senza allusioni massoniche. 

La spinta di Mattarella alla riforma finalmente garantista della giustizia

Titolo del Dubbio
Dal banco del governo gli applausi a Mattarella a Montecitorio

E’ una congiunzione di tipo non astronomico ma tutto politico quella fortunatamente creatasi sulla traiettoria di una riforma garantista della giustizia fra i referendum promossi in materia dai radicali e dai leghisti, l’arrivo di Marta Cartabia alla guida del Ministero della Giustizia, i troppi veti incrociati in apertura della gara al Quirinale, la conseguente rielezione di Sergio Mattarella, l’allontanamento quanto meno dello spettro delle elezioni anticipate già nella prossima primavera, che avrebbero comportato il rinvio delle prove referendarie, e infine il forte discorso al Parlamento del presidente della Repubblica appena confermato. Il quale si è guadagnato i più intensi dei 55 applausi che ne hanno interrotto l’intervento di 38 minuti proprio nel passaggio dedicato alla necessaria riforma della giustizia per restituirle -ha detto- “credibilità”. Che si è progressivamente perduta negli ultimi trent’anni, cioè dallo straripamento giudiziario di “Mani pulite”, pur non menzionate esplicitamente dal capo dello Stato. 

Mattarella, Amato e Draghi

Un testimone di questa realtà, a suo tempo vittima politica di quel fenomeno, è il presidente della Corte Costituzionale fresco di insediamento e più volte candidato mancato al Quirinale Giuliano Amato. Da presidente del Consiglio nella primavera del 1993 egli tentò con l’allora ministro della Giustizia, il compianto Giovani Conso, un’uscita cosiddetta politica dalle già ricordate “Mani pulite” originariamente condivisa dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, ma contestata pubblicamente dalla Procura di Milano e sconfessata nel giro di poche ore al Quirinale. Per cui la vicenda giudiziaria proseguì sui binari della distruzione dei partiti di governo e della relativa classe dirigente, liquidata come una specie di associazione a delinquere per il pur generalizzato finanziamento illegale della politica, anticamera presuntivamente obbligata di reati come corruzione e concussione: tutti contestati ad una infinità di persone a Milano  -ricordiamolo- con indagini di sostituti procuratori che passavano per un unico giudice preliminare. Ciò è stato denunciato di recente sul Dubbio, nel silenzio più assordante della magistratura e nella incredibile distrazione dei giornaloni, da Guido Salvini. Che si vide spogliato brutalmente di un fascicolo arrivato per caso, diciamo così, nel suo ufficio e tentò inutilmente, con una protesta tutta interna al tribunale, di fermare quello scempio. 

Si dirà: acqua passata. Certo, passata. Ma che si è trascinata appresso la cosiddetta prima Repubblica, ha fatto nascere e crescere  male la seconda  e sta accompagnando la terza, se anche questa non è già morta essendo dedicata alla quarta almeno un programma televisivo di un certo ascolto. 

La vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX
Titolo del Giorno, Nazione e Resto del Carlino

La forza con la quale Mattarella ha posto il problema della riforma della giustizia nel discorso di avvio del suo secondo mandato presidenziale ha sorpreso -scusate la franchezza- solo quanti non avevano voluto o saputo coglierne i chiarissimi segni di stanchezza e delusione, a dir poco, per le spalle e spallucce opposte durante il primo mandato ai suoi richiami, alle sue sollecitazioni, alle sue proteste, non tradottesi nello scioglimento anticipato del Consiglio Superiore della Magistratura, quando vi è scoppiato il bubbone delle carriere correntizzate, solo per il timore da lui avvertito -e che mi risulta quasi direttamente- di ripercorrere pratiche e formule mussoliniane. 

Ancora a Capodanno, quando già Mattarella aveva parlato più volte della necessità di una “rigenerazione” della magistratura per uscire dalle “logiche di appartenenza” correntizia e/o politica, con tutte quelle porte girevoli fra tribunali e palazzi del potere nazionale e locale, un giornale come quello della famiglia Berlusconi e il contiguo Libero contestarono a Mattarella di avere ignorato i problemi della giustizia nel messaggio televisivo a reti unificate. Ma temo che l’obiettivo non fosse il presidente uscente della Repubblica , bensì l’allora avversato, temuto e chissà cos’altro presidente confermando. Era ancora in coltivazione politica e mediatica in quei giorni la candidatura di Berlusconi, che aveva bisogno di tempo per capire la impraticabilità politica di quell’ambizione, senza le consuete e triviali offese di Travaglio e simili alla persona. 

Ora, di fronte al discorso di avvio del secondo mandato di Mattarella, consapevole di avere più forza di un presidente in scadenza, e di interloquire con un Parlamento  più disponibile, ma ancor più fiducioso del prossimo per i mutamenti in corso degli equilibri politici, il Giornale diretto dall’amico Augusto Minzolini ha aggiunto un “meglio tardi che mai” all’annuncio del Mattarella bis che “fa giustizia”. Più francamente il direttore di Libero Alessandro Sallusti si è pubblicamente scusato per avere dubitato di Mattarella sino al giorno prima, lasciandosi scappare qualche dubbio -spero infondato- solo sulla capacità di comprensione dei “Fantozzi” più o meno onorevoli che pure l’hanno così tanto applaudito: Fantozzi però che sono stati più lesti e saggi dei leader e leaderini dei loro partiti, partitini e correnti cominciando a votare Mattarella già nei primi scrutini, contro i giochi e giochetti che si svolgevano nelle segrete stanze dei gruppi e dintorni. 

Mattia Feltri sulla Stampa di ieri

Qualche dubbio sulla capacità di comprendonio o di volontà di questo e forse anche del prossimo Parlamento lo ha espresso sulla Stampa, lamentando il ”ruggito del gatto”, anche l’insospettabile Mattia Feltri, così diverso da papà Vittorio. Che nel 1992 -avendone poi il coraggio di ammetterlo- insegui come oro colato quello della Procura di Milano solo per aumentare le vendite in edicola del suo “Indipendente”, e salvarlo da una chiusura immediata. 

Persino il mio buon amico Piero Sansonetti ha ritenuto di mettere un cautelativo “forse”, in rosso, nel doveroso titolo del suo Riformista sul “risveglio” e sulle “picconate” di Mattarella alla magistratura. 

Pubblicato sul Dubbio

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