Fra i vari conti che mi sono perso nella mia lunga attività giornalistica vi è anche quello delle volte in cui singolarmente o cumulativamente abbiamo gridato contro il bavaglio che il prepotente di turno cercava di metterci. E ciò interpretando male qualche legge in vigore o creandone di nuove con la cosiddetta prassi, o intimidendoci con denunce, querele e simili, spesso affrontate da noi pennivendoli -come qualche volte ci chiamava persino quel galantuomo di Ugo La Malfa- a mani nude per le inadempienze sopravvenute dei giornali dove lavoravamo.

Non dubito, per carità, che in qualche Procura si stia applicando troppo, o troppo male, come preferite, la direttiva europea tradotta in legge in Italia per rafforzare la presunzione d’innocenza. Che -vorrei ricordare anche a qualche collega, a questo punto- non è un reato e neppure un peccato, per i fedeli, ma un valore tutelato nella prima parte della Costituzione, con l’articolo 27, ben prima quindi della parte seconda dedicata all’Ordinamento della Repubblica e al quarto titolo di essa dedicato alla Magistratura: tutto al maiuscolo, naturalmente.
Ammaestrato anche dall’esperienza di “Mani pulite”, di cui si stanno celebrando in questi giorni i 30 anni tra non pochi pentimenti anche di celebrità dell’accusa, a cominciare dalla buonanima del capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, scusatosi in pubblico degli effetti procurati, assai diversi evidentemente da quelli che si aspettava, tendo ad eccedere -lo confesso- nella difesa della presunzione d’innocenza.
Di bavagli, poi, siamo stati costretti a subirne già tanti in questi tempi di pandemia che non mi fanno paura neppure quelli che dovessero sopraggiungere ad una mancata fine dell’emergenza annunciata per fine marzo. Penso piuttosto a un bavaglino che occorrerebbe a una pur fortunata trasmissione pomeridiana della Rai che più della Vita in diretta meriterebbe il nome dello Spioncino in diretta, o del Processo intuitivo.
Pubblicato sul Dubbio
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