I problemi del ritorno di Draghi dal G7 e dal summit della Nato

            Il Mario Draghi di ritorno dalla Cornovaglia e da Bruxelles, reduce dal G7 e dal summit della Nato, è fisicamente lo stesso di prima, naturalmente. Anche le idee sono rimaste le stesse, essendo non noto ma arcinoto il convinto atlantismo del presidente del Consiglio, del resto da lui espresso chiaramente e orgogliosamente presentandosi alle Camere per chiedere e ottenere la fiducia. Ma è un Draghi un po’ diverso per i grillini.

Titolo del manifesto

Costoro magari faranno finta di niente, disinvolti come sono diventati molti di loro nel cambiare alleanze, concetti e parole, ma non potranno sottrarsi adesso alle conseguenze degli impegni presi a livello internazionale dal capo del governo in quella che non solo la Repubblica nei giorni scorsi, presentando in prima pagina il G7, ma anche oggi il manifesto, riferendo sul summit della Nato, ha definito la “nuova guerra fredda”, dopo quella con l’Urss. Ora la Russia di Putin ha preso il posto della disciolta Unione Sovietica e la Cina è diventata un’avversaria dell’Occidente forse ancora più insidiosa e temuta di Mosca per quelle che anche Draghi ha definito o riconosciuto “sfide sistemiche all’ordine internazionale”.

            Il Draghi di ritorno dal suo incontro col nuovo presidente degli Stati Uniti, sollevato dalla fine dell’era del predecessore Donald Trump, non è certamente il Conte che riuscì a realizzare nell’estate del 2019 il suo secondo governo, scaricando la Lega e imbarcando il Pd, perché forte anche dell’incoraggiamento ricevuto dall’allora inquilino della Casa Bianca, sino a sentirsi raddoppiare il nome con quell’ormai famoso  e un po’ ridicolo “Giuseppi”.

            Col Draghi che si è proposto di “esaminare” l’accordo con la Cina sulla cosiddetta “via della Seta” stipulato con vanto nel 2019 dall’allora ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio si dovrà pur confrontare, diciamo così, lo stesso Di Maio che ora è ministro degli Esteri. Egli ha tanto furbescamente quanto inutilmente cercato di tenere il punto nella recente intervista alla Stampa rimettendosi al giudizio che di quell’intesa potranno e vorranno dare le imprese italiane, grandi e piccole, che ne hanno tratto vantaggio. Come se quell’intesa fosse stata e fosse solo di natura commerciale, senza risvolti ed effetti politici, che ora andrebbero quanto meno approfonditi. E non credo solo da Beppe Grillo con un altro incontro di tre ore con l’ambasciatore cinese a Roma, dopo quello recentissimo al quale si era avventurato a fare invitare anche il nuovo capo designato del MoVimento 5 Stelle Conte, sottrattosi all’ultimo momento capendo da solo -si spera- i problemi che avrebbe potuto provocare nel suo nuovo ruolo alla maggioranza di governo.

            Di quest’ultima, per quanto riguarda il MoVimento in via di rifondazione, Conte non può pensare che si senta o possa essere avvertito come “garante” il Grillo “insostituibile” che egli ha accettato come tale a casa sua. “Un uomo, una garanzia”, ha scherzato Mattia Feltri scrivendone sulla Stampa e sul Secolo XIX dopo avere elencato tutti gli ordini e i contrordini sotto le 5 Stelle emessi o accettati dal comico genovese nei primi tre anni di questa variegata e singolarissima legislatura. Che è, o dovrebbe essere, cosa diversa da uno spettacolo di teatro o tendone.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

In troppi corrono al centro ma mancano di un condottiero forte, convinto e astuto

Di fronte alla corsa al centro sotto le 5 stelle di Beppe Grillo, culminata in una gara fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio al corteggiamento dell’elettorato moderato, come ha detto il primo parlando in televisione con Lucia Annunziata, o del ceto medio di cui nessuno più si occuperebbe, come ha detto il secondo in una intervista alla Stampa, trovo pertinente lo scetticismo dell’amico Marco Follini. Che ha appena scritto omericamente sull’Espresso della “nostra Itaca” intesa come il mitico centro, appunto, inseguito da un “fitto pulviscolo di partiti e partitini, leader e semi leader” che “se ne considerano le vestali”. E che si mostrano tutti convinti della necessità di “fronteggiare la pressione delle estreme, magari facendo appello al buon senso di quella parte di elettorato che a tutt’oggi considera troppo avventurosa una sinistra che s’accompagna al populismo di marca grillina e altrettanto disdicevole una destra arroccata sulla trincea della diffidenza contro l’Europa, l’estabilishment, le regole, le buone maniere, i poteri forti e chi più ne ha più ne metta”.

L’isola Fernandea in un dipinto
Itaca

            Ma oltre all’isola, ammesso e non concesso che essa sia davvero Itaca e non piuttosto la Fernandea, emersa e sommersa in poco più di un anno nel Mediterraneo durante l’Ottocento, contesa fra inglesi, francesi e borboni siculi, ci vorrebbe Ulisse. Ci vorrebbe cioè “un leader capace -ha spiegato Follini- di tracciare una rotta, di prendersi tempo per percorrerla, di indugiare nel frattempo nelle tentazioni senza cedervi del tutto, di attraversare i pericoli con lucidità e scaltrezza, e soprattutto di mettere la propria astuzia al servizio di una causa mai priva di una punta di grandiosità. Tutte virtù- ha scritto ancora Follini- che tra centristi a denominazione di origine controllata e neo-centristi in arrivo dalle lande più lontane non sembrano così diffuse”.

            Per restare nella rappresentazione di questa attesa omerica di Ulisse, occorrerebbe auspicarne  -mi permetto di aggiungere- anche la voglia, la forza e lo stomaco di fare strage, una volta tornato a Itaca, dei cento e più “Proci”  miserabilmente affollatisi alla porta dell’elettorato vedovo della centralità democristiana e laica dei tempi migliori della Repubblica, ingrassatisi nella dissipazione dell’eredità, oltre che nella corte a Penelope.

            Follini -lo dico subito, e non solo per amicizia, ma per averne ben seguito l’attività politica svolta anche o soprattutto, per ragioni anagrafiche, nella cosiddetta seconda Repubblica- non è confondibile con i Proci. Egli è uno che ha sempre diffidato delle virtù taumaturgiche attribuite al bipolarismo. Lo ha sperimentato, cioè vissuto, sia sul versante del centrodestra, diventando vice presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi in rappresentanza dell’Udc gestita con l’amico Pier Ferdinando Casini, per allontanarsene di fronte all’impossibilità personalmente avvertita di drizzare le gambe ad una coalizione troppo appesa ai condizionamenti della Lega di Umberto Bossi e della destra di Gianfranco Fini. E se ne andò anche dall’Udc fondando un piccolo partito dal significativo nome dell’Italia di mezzo: più di centro di così non poteva proporsi di essere e di definirsi.

            Quando, nella versione non più dell’Ulivo ma dell’Unione, Romano Prodi fece il suo secondo governo il senatore Follini gli accordò la fiducia. E partecipò poi anche alla fondazione del Pd. In cui non rimase un minuto di più quando lo vide tentato nel 2013, col segretario Pier Luigi Bersani, dall’idea di poter governare l’Italia con una combinazione ministeriale di “minoranza e combattimento” appesa agli umori e ai vaffanculo -scusate la parolaccia- del movimento di Beppe Grillo. Che, non disponendo ancora della maggioranza relativa in Parlamento e quindi tentato dal realismo trasformistico, o dal trasformismo realistico, sopraggiunto in questa legislatura, mirava solo alla demolizione dell’esistente.

            Dalla onesta uscita dal Pd Follini fa politica a modo suo, raccontandola e commentandola, tra saggi e articoli, con l’arguzia di un moderato vero, deluso, preoccupato e, direi, anche vaccinato dal rischio di scambiare ancora lucciole per lanterne. Il nostro comune e compianto amico Aldo Moro ne sarebbe stato contento, come quando lo aiutò a scalare il movimento giovanile della Dc.

Uno come Marco Follini sarebbe utile anche a Ulisse, se dovesse davvero spingersi sulle coste italiane fra uno sbarco e l’altro di immigrati sfuggiti alla vigilanza di Salvini. Di cui peraltro non so neppure se sarà davvero possibile fidarsi -si fa per dire- come cacciatore di clandestini, vista la trasformazione in corso della Lega, cominciata già prima ma accelerata dopo la partecipazione alla maggioranza e al governo pluri-emergenziale di Mario Draghi. Il quale -a proposito- sarebbe, a ben pensarci, un magnifico Ulisse redivivo se, compiuta la missione affidatagli da Sergio Mattarella, e condivisa da una larga maggioranza del Parlamento, pur tra mal di pancia ora di questa e ora di quella componente, dovesse o volesse lasciarsi tentare dalla politica. Dove altro, in fondo, potrebbe collocarsi uno come lui, con le sue esperienze, le sue frequentazioni, il suo prestigio, se non nell’Italia di mezzo sognata a suo tempo da Follini?  E risognata da me scrivendo questo articolo.

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