Mario Draghi for ever, tra Palazzo Chigi e Quirinale…

Marco D’Aliberti

            Claudio Cerasa, il direttore del Foglio, lo ha presentato ai lettori come “l’uomo che sussurra a Draghi”, essendone il consigliere più stretto e fidato del presidente del Consiglio, o fra i più stretti e fidati. E lo ha descritto fisicamente a mezza strada fra Corrado Passera e Sabino Cassese. E’ il professore di diritto amministrativo -non a Cassino e a contratto come il candidato del centrodestra al Campidoglio Enrico Michetti, ma all’Università La Sapienza di Roma- Marco D’Aliberti. Al quale Cerasa ha strappato non un’intervista, pur avendogli fatto pervenire un elenco di temi da trattare e ricevuto per risposta un lungo documento scritto, ma una “chiacchierata” in cui scavare di più e capire meglio gli oracoli che potevano rischiare di essere o apparire parti estrapolate di quel testo ricevuto da Palazzo Chigi.

            Da questa “chiacchierata”, farcita di riferimenti a Seneca, Leopardi, Gaetano Filangieri, Manzoni e l’ancor vivo Giuliano Amato, si è capito che Draghi si era tenuto un po’ stretto dicendo qualche giorno fa a Giorgia Meloni, ricevuta a Palazzo Chigi con una cordialità sconosciuta a Giuseppe Conte nei rapporti con le opposizioni al suo secondo governo, che “qui abbiamo tanto da fare sino al 2023”, cioè sino alla scadenza ordinaria della legislatura. Il che bastò e avanzò per supporre una preferenza del presidente del Consiglio a rimanere al suo posto, piuttosto che lasciarsi prendere dalla tentazione di succedere a febbraio a Sergio Mattarella al Quirinale, dove qualcuno vorrebbe cercare di mandarlo non so, francamente, se più per imbalsamarlo, ammesso che uno come Draghi possa essere impagliato, o per affidargli in custodia uno e anche più successori a Palazzo Chigi, con o senza un passaggio di elezioni anticipate.

            Di lavoro da fare alla guida del governo sulla base delle cose già impostate da Draghi riformando, semplificando, accelerando e via con altri gerundi, il buon D’Aliberti ne ha viste sino alla fine del 2026, al termine cioè dello scadenziario trimestrale fissato dalla Commissione Europea per finanziare via via il famoso piano della ripresa mandato da Roma a Bruxelles.

            Non so se facendo il finto tonto o il furbo, lasciando cioè aperte a Draghi sia la strada del Quirinale sia la conferma alla guida del governo in buona parte anche della prossima legislatura, Cerasa ha scritto, e concluso il resoconto della sua chiacchierata con D’Aliberti, che “presto a Palazzo Chigi dovranno provare a chiedersi quale sia il modo migliore e il palazzo migliore su cui scommettere per far sì che la parentesi di oggi possa chiudersi il più tardi possibile”. E’ una parentesi, poi, per modo di dire, perché D’Aliberti l’ha più correttamente definita “una stagione di riforme”. Che non significa poi una stagione di chissà quante leggi, o quanto lunghe, perché un sistema per funzionare, e per difendersi dall’insidia della disonestà  avvertita anche da Seneca, ha bisogno di poche e semplici regole. Non di proclami, aggiungerei, come quella legge addirittura “spazzacorrotti” di cui fanno a gara a vantarsi l’ex presidente del Consiglio Conte e l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Che ne profittarono per mettervi dentro come una supposta una prescrizione così breve da poter produrre l’imputato a vita.   

Ripreso da http://www.policymakermag.it

La candidatura sprecata in Campidoglio si chiama Vittorio Sgarbi

Per quanto l’insospettabile e saggio Biagio De Giovanni abbia appena rimproverato al “centro-sinistra”, sul Riformista di Piero Sansonetti, di essersi fatto praticamente fregare dal “centro-destra”, entrambi col trattino, nella preparazione alle elezioni politiche aspettando “come Godot” l’ultima edizione di Giuseppe Conte, impegnato a “raccattare pezzi dei 5 stelle dispersi a destra e a manca”,  dubito che l’alleanza tra Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico, stia facendo davvero del suo meglio per vincere la partita finale. O almeno per vincerla con le sue sole forze, senza contare sull’autorete degli avversari.

            I dubbi mi sono venuti assistendo prima alla troppo affannosa ricerca delle intese sulle candidature a sindaco nelle grandi città in cui si voterà in autunno, facendo addirittura scommettere Nicola Zingaretti su una specie di miracoloso e vincente cappotto del Pd, e poi alla pasticciata partenza e gestione del progetto di federazione del centro-destra. Che anche io scrivo ora col trattino, pur essendo nato senza di esso nella cosiddetta seconda Repubblica, perché il suo stesso promotore Berlusconi ha voluto praticamente metterlo rivendicando la cosiddetta centralità della sua Forza Italia, anche dopo averla riconosciuta alla Lega per il sorpasso subìto ad opera di Salvini nelle elezioni del 2018. E ben prima che un altro sorpasso, stavolta di Giorgia Meloni su Salvini, possa produrre un’alleanza a trazione meloniana, appunto.

            Mi direte che, a parte il perdurante pasticcio della federazione, a seguirne i cui sviluppi si perde il conto delle frenate o delle accelerazioni ora di Salvini e ora di Berlusconi, il centro-destra ha appena risolto i problemi delle candidature a sindaco di Torino e di Roma, lanciando rispettivamente l’imprenditore Paolo Damilano e la coppia Enrico Michetti-Simonetta Matone, in ordine questa volta non alfabetco ma gerarchico, essendo la seconda destinata ad essere davvero la vice del primo.

            Non so francamente a Torino, ma a Roma, dove personalmente abito e voto, francamente non scommetterei sulla coppia del centro-destra, pur con tutto il rispetto, per carità, che meritano entrambi i candidati: l’uno avvocato amministrativista, professore, espertissimo di problemi legali dei Comuni, tribuno radiofonico che non ho mai avuto la fortuna di ascoltare, l’altra magistrata più nota- mi sembra- di Michetti per le sue apparizioni televisive.

            A leggere le prime interviste di Michetti, cui peraltro Il Fatto Quotidiano ha subito riservato il solito trattamento giustizialista presentandolo come inseguito dalla Guardia di Finanza per presunti danni di oltre 800 mila euro procurati alla regione Lazio, a parte la solidarietà che merita per questo tipo di accoglienza ricevuto dal giornale che sostiene la conferma della sindaca grillina uscente Virginia Raggi, non mi sono francamente entusiasmato. Non credo che gli basti “il buon paio di scarpe” che ha annunciato di avere comperato per girare per Roma, dove servono piuttosto gli scarponi, e anche i canotti, per le condizioni alle quali la città è ridotta. E piuttosto che offrirsi di accompagnarlo di persona, presumendo evidentemente di conoscere meglio strade, piazze e quartieri, La Meloni secondo me avrebbe fatto meglio a candidarsi lei direttamente a sindaco. Se non lo ha fatto ritenendo il Campidoglio di secondo ordine rispetto al pur vicino Palazzo Chigi, ha commesso un errore inutilmente segnalatole di recente da un “animale politico” quale io considero Giuliano Ferrara. Che contemporaneamente auspicava la candidatura di Salvini a sindaco di Milano, senza che ciò potesse precludere all’una e all’altro, al momento opportuno, la guida di un governo. Il compianto Jacques Chirac fu sindaco di Parigi prima di approdare all’Eliseo come presidente della Repubblica francese.

            Un’ammissione della debolezza politica della coppia lanciata dopo tanti rinvii dal centro-destra per il Campidoglio l’ho trovata nel “tridente” vantato da Salvini proponendo come salvifica la nomina di Vittorio Sgarbi ad assessore alla cultura. Ma allora, scusatemi, pur nativo di Ferrara, e già sindaco di San Severino Marche, di Salemi e ora di Sutri, perché non spendere un nome e un uomo così prestigioso, pur al netto della sua imprevedibilità,  direttamente per il vertice dell’amministrazione capitolina?

Non si può onestamente pensare che uno come Sgarbi sia meno noto e capace di guadagnarsi voti oltre le logiche e i confini degli schieramenti tradizionali dell’avvocato, professore e tribuno Michetti o della giudice Matone. Né pensare che Sgarbi, compiaciuto del “tridente” inventato da Salvini, o addirittura da lui stesso suggerito al leader leghista, si sarebbe sottratto alla candidatura a sindaco di Roma se gliel’avesse offerta Giorgia Meloni.  Che a questo punto avrebbe avuto almeno il beneficio di accompagnare in giro il candidato per la “sua” Roma facendosene spiegare o addirittura scoprendo bellezze e tesori artistici. Poi il “suo” avvocato Michetti avrebbe ben potuto aiutare Sgarbi a sbrigare gli affari amministrativi della città con la sua esperienza di fondatore, peraltro, della “Gazzetta Amministrativa” così ingiustamente sottovalutata dal Foglio col titolo che gli ha dedicato di candidato “Ajo, ojo e Campidojo”.

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑