Mario Draghi si sfila dalla corsa al Quirinale, se mai vi è davvero entrato

Titolo del Foglio

            Per niente intimidito dal “lavoraccio” che gli ha attribuito in prima pagina il manifesto alla guida del governo, fra le preoccupazioni europee per le dimensioni del debito pubblico italiano, pur con prospettive concrete adesso di ripresa economica, e una maggioranza troppo larga per essere davvero compatta, come del resto non lo era, o lo era ancor meno quella più ristretta delle due edizioni del predecessore a Palazzo Chigi, Mario Draghi ha detto a Gorgia Meloni nel proprio ufficio di presidente del Consiglio che “qui c’è tanto da fare fino al 2023”. Cioè, fino alla conclusione ordinaria della legislatura cominciata nel 2018, senza scioglimenti anticipati  sognati o temuti, secondo i gusti, da chi pensa sotto sotto che proprio Draghi, succedendo a Sergio Mattarella a febbraio, possa o addirittura voglia poi rinnovare subito le Camere per creare nel nuovo Parlamento, dimagrito e riequilibrato rispetto a quello eletto più di tre anni fa, una maggioranza forse meno larga di oggi ma più coesa.

            Le parole rivolte in più di un’ora di incontro con la rappresentante dell’unica opposizione dichiarata e praticata al suo governo, compiaciuta peraltro di avere trovato nel presidente del Consiglio “un interesse reale e attento”, ben diverso da quello riservato al centrodestra da Giuseppe Conte nei mesi precedenti alla sua caduta, equivalgono ad un chiaro sfilamento di Draghi dalla corsa al Quirinale. E ciò ammesso e non concesso ch’egli vi abbia davvero pensato di parteciparvi, come forse gli hanno attribuito solo i giornali e gli interessati, politicamente, più a imbalsamarlo sul colle più alto di Roma che a promuoverlo.

            La rimozione di una reale candidatura di Draghi alla successione a Mattarella potrebbe tanto facilitarne una non so se più di fantasia o di coraggio come quella di Marta Cartabia, l’attuale guardasigilli che sarebbe poi la prima donna a presiedere la Repubblica, quanto rendere ancora più stringente il pressing in corso su Mattarella, nemmeno tanto dietro le quinte, perché accetti con una rielezione sostanzialmente a termine un supplemento di fatica. Che permetterebbe al sistema una più solida e realistica successione non in un Parlamento ormai in scadenza ma nel nuovo, che risulterà per forza di cose tanto più diverso da quello attuale, fra una sostanziosa riduzione dei seggi, tanto alla Camera quanto al Senato, e la ormai scontata fine della cosiddetta “centralità” del Movimento 5 Stelle. O comunque esso si chiamerà dopo la rifondazione affidata da Beppe Grillo in persona a Conte. Non si ripeterà di certo il successo del 2018, quando i grillini conquistando la maggioranza relativa, come la Dc ai suoi tempi, diventarono il perno di tutte le combinazioni possibili di governo.

            La prospettiva di elezioni anticipate è smentita anche dall’interesse ora concreto e personale sia di Conte sia del segretario del Pd Enrico Letta  alle elezioni politiche suppletive in arrivo in autunno con le amministrative  per sostituire, rispettivamente, a Roma la deputata grillina Emanuela Del Re, in uscita verso incarichi all’estero, e a Siena il senatore piddino ed ex ministro Pier Paolo Padoan, designato alla presidenza di Unicredit. Non avrebbe francamente senso ambire ad un seggio parlamentare della durata di qualche mese, anziché del quasi anno e mezzo residuo della legislatura.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

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De Gregori nel Pantheon e Mattarella ancora al Quirinale

Per quanto prematura, con i suoi 70 anni felicemente compiuti in aprile, cinque in meno della Repubblica appena festeggiata nelle piazze d’Italia e al Quirinale, è meritatissima la destinazione di Francesco De Gregori al Pantheon nazionale simpaticamente assegnatagli dal Foglio. Che ha commentato con questa destinazione, appunto, il passaggio più suggestivo del discorso celebrativo di Sergio Mattarella: quello in cui il capo dello Stato ci ha esortati tutti, anziani e giovani, a riconoscerci nei versi scritti, tradotti in musica e cantati appunto da De Gregori ricordando che “la Storia siamo noi”.

            E’ la Storia, con la maiuscola, in cui nessuno deve sentirsi offeso o escluso “in questo prato di aghi sotto il cielo“, tra rumori e silenzi “duri da masticare”. O tra le false grida contro i “tutti che rubano nella stessa maniera”, lanciate giusto per “convincerti a restare chiuso quando viene la sera”, ben prima che altre grida, stavolta giustificate dalla pandemia e tradotte in tanto di decreti, ci obbligassero per un po’ di tempo al coprifuoco per proteggerci dai bombardamenti del Covid.

E’ la Storia che “dà torto o dà ragione”, magari non agli stessi che se li erano attribuiti intempestivamente. E’ la Storia di noi che “abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere”, anche quando cerchiamo di chiudere gli occhi, senza renderci conto che “quando si tratta di scegliere e di andare” ti ritrovi “la gente tutta con gli occhi aperti”, sapendo “benissimo cosa fare”. E via parlando e cantando.

            Il De Gregori scelto con arguzia dal capo dello Stato in quello che personalmente mi auguro – come spiegherò più avanti- non possa diventare davvero l’ultimo dei suoi pronunciati in carica per il compleanno della Repubblica, è il cantautore dei momenti o delle fasi ispirate all’ottimismo. E’ il De Gregori anche di “Viva l’Italia”, che commosse e piacque tanto a Bettino Craxi da farne, fra i mugugni e poi anche le proteste dell’interessato, la colonna sonora delle manifestazioni del Psi orgogliosamente autonomista, finalmente affrancato dalla paura, dalla soggezione e altro ancora nei rapporti col partito egemone della sinistra. Che era il Pci, preferito, o in cui comunque si riconosceva di più il cantautore prima che la Storia gli desse torto con la caduta del muro di Berlino. Per sottrarsi alle cui rovine alle Botteghe Oscure cambiarono nome e simbolo, e poi anche la sede.

            Il De Gregori scelto da Mattarella per commuovere e incoraggiare gli italiani non è il cantautore scoraggiato che nel 1976- dopo un anacronistico processo fattogli al Palalido di Milano dai collettivi studenteschi e dagli extraparlamentari rossi per rinfacciargli i soldi che guadagnava strumentalizzando, secondo loro, i concetti di sinistra che già allora esprimeva nelle sue canzoni- si propose di ritirarsi per protesta contro quelli che gli avevano appena risparmiato solo “l’olio di ricino”. Ma fu una protesta che per nostra fortuna durò pochissimo, perché egli tornò presto a scaldare il pubblico.

            Il De Gregori pessimista, che Mattarella sicuramente non ignora ma non ha giustamente citato in una ricorrenza festosa come il 2 giugno, è quello che nel 1989 previde come “regola del 2000” addirittura “la legalizzazione della mafia” e nel 1993 indicò nella tragedia del Titanic l’evento simbolico “del secolo”, che pure aveva già prodotto due guerre mondiali e in Italia anche gli anni di piombo in piena democrazia. Il De Gregori pessimista era anche quello che ci esortava a non comperare un’auto usata da un “ottimista” o da uno dichiaratamente, spavaldamente “moderno”. Ma chi di noi, del resto, non ha mai alternato momenti e occasioni di ottimismo e di pessimismo?

            Personalmente, per esempio, ritengo troppo ottimistico il proposito, il desiderio e quant’altro espresso recentemente da Mattarella ad una scolaresca romana di prendersi il meritato riposo “fra otto mesi”, quando scadrà il suo mandato presidenziale. Temo e al tempo stesso auspico un suo supplemento di fatica, un sacrificio come quello computo dal suo predecessore Giorgio Napolitano. Che nel 2013, in un Parlamento appena eletto ma bloccatosi nella scelta del suo successore al Quirinale, accettò con la rielezione offertagli in processione dai rappresentanti di un po’ tutte le forze politiche di rimanere al suo posto ancora due anni, sostituito nel 2015 proprio da Mattarella.

            Quest’ultimo sa bene, senza che glielo debba ricordare anche un giornalista modesto come me, la debolezza intrinseca di un altro presidente della Repubblica eletto l’anno prossimo da un Parlamento destinato l’anno dopo ad essere modificato numericamente, ridotto di più di un terzo dei seggi, e politicamente. E ciò per i tempi a dir poco infelici di una riforma imposta, pur a bicameralismo invariato, dai grillini prima ai leghisti e poi al Pd, alternatisi nell’alleanza di governo con le 5 Stelle. Formalmente sarebbe, per carità, un presidente legittimo, nel pieno dei suoi poteri dal primo all’ultimo giorno del mandato settennale, salvo il divieto di sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del proprio incarico.  Di fatto però sarebbe un presidente azzoppato, evitabile solo se generosamente Mattarella accettasse di aspettare anche lui l’elezione delle nuove Camere per prendersi il riposo e il laticlavio che gli spettano. La Storia, presidente, per dirla con De Gregori, è anche Lei.

Pubblicato sul Dubbio del 4 giugno

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