Ma come è venuta bene a Draghi la ragnatela attribuitagli dal Corriere

            Dichiaratamente “arrossito” di commozione o imbarazzo per gli elogi appena ricevuti a Barcellona dal premier spagnolo Pedro Sanchez, e dai promotori del premio conferitogli per la partecipazione al processo d’integrazione europea, Mario Draghi farebbe presto a consolarsi, appena mette piede fuori d’Italia, se venisse preso a Palazzo Chigi da momenti d sconforto o, peggio ancora, di preoccupazione per il livello spesso troppo basso, a dir poco, del dibattito politico in Italia. Che è sempre più caratterizzato dall’ansia di tutti i partiti di ritrovare o darsi un’identità, spesso a spese del governo alla cui maggioranza essi partecipano più per paura, forse, che per convinzione. E’ la paura delle elezioni anticipate avvertita, per esempio, durante l’ultima crisi, nonostante l’aria quasi di sfida con cui parlavano pubblicamente dello scioglimento delle Camere i difensori ad oltranza del secondo governo Conte, o i sostenitori di un suo terzo Gabinetto, alla faccia dell’odiato, indisciplinato, imprevedibile e quant’altro partito di Matteo Renzi.

Richiamo del Corriere della Sera in prima pagina

            Ma a leggere proprio oggi il Corriere della Sera, in particolare un articolo di Francesco Verderami, Draghi non ha neppure bisogno di affacciarsi all’estero per consolarsi con gli apprezzamenti che riceve in ogni appuntamento internazionale. O di leggere l’autorevole Financial Times –lui che non ha bisogno di una traduzione- per trarre incoraggiamento. O di soffermarsi sull’ultimo sondaggio dell’istituto americano Morning Consult, che lo ha collocato al secondo posto della graduatoria mondiale dei capi di Stato o di governo maggiormente apprezzati dai loro cittadini, come ha tenuto a ricordare lo stesso Verderami sul Corriere. Secondo il quale ormai Draghi, a dispetto di certe cronache, e dei soliti allarmi o auspici del Fatto Quotidiano, ancora in contemplazione del predecessore Conte, e desideroso di un suo ritorno a breve per un clamoroso fallimento del successore, sarebbe riuscito a imporre la sua “pace” anche nelle sedute del Consiglio dei Ministri più difficili. Tutti insomma, anche gli apparentemente più irriducibili e sospettosi, sarebbero finiti nella “ragnatela” di Draghi.

            Credo peraltro che il presidente del Consiglio non si sia reso neppure conto di questa ragnatela, tanto gli è venuta spontanea, naturale, prodotta dal suo modo abituale di lavoro. Il  presidente del Consiglio sente tutti, per carità, o mostra di sentirli, ma poi decide praticamente da solo, come ha appena fatto, per esempio, destinando alla guida di quella che sarà la nuova Alitalia Alfredo Altavilla, pescandolo tra i collaboratori del compianto Sergio Marchionne, o correggendo, se non smentendo, il ministro della Salute Roberto Speranza sull’ultimo pasticcio delle vaccinazioni. O mettendo “in mutande gli economisti dogmatici” col suo “pragmatismo”, come ha titolato in turchese in prima pagina Il Foglio. O infine avvalorando l’ironia vignettistica di Stefano Rolli, che cita a dimostrazione del funzionamento della vaccinazione eterologa alla quale Draghi si è appena offerto personalmente l’assunzione da lui già fatta di Grillo e Berlusconi nella maggioranza di governo.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it 

Il Quirinale in edizione femminile che inquieta la consorteria giustizialista

Davide Varì, il direttore del Dubbio, si chiedeva giustamente qualche giorno fa se e cosa stesse sotto o dietro l’offensiva scatenata dal Fatto Quotidiano contro la ministra della Giustizia Marta Cartabia per una misteriosa lettera speditole dall’ergastolano e stragista di mafia Giuseppe Graviano. Come se, quasi attraverso la breccia aperta dalla stessa Cartabia alla Corte Costituzionale con una sentenza di allentamento, diciamo così, del cosiddetto ergastolo ostativo, ci fosse aria, puzza e non so cos’altro di una nuova trattativa fra lo Stato e la mafia, dopo quella su cui si sta svolgendo il processo d’appello a Palermo. Dal quale peraltro la pubblica accusa teme tanto di uscire male che ha preso l’assai singolare iniziativa di contestare la sentenza definitiva di assoluzione emessa dalla Corte di Cassazione, a proposito di quella stessa trattativa, nei riguardi dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Dalle cui preoccupazioni o sollecitazioni, essendo stato minacciato di morte dalla mafia, sarebbe partito il negoziato del biennio 1992-93, finalizzato a scongiurare o contenere la stagione delle stragi mafiose.

            Una risposta alla curiosità, chiamiamola così, del direttore del Dubbio l’ho intravista in un passaggio dell’ennesimo editoriale dedicato ad un’altra donna delle istituzioni e della politica presa di mira dal Fatto Quotidiano. Che è la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, seconda carica dello Stato essendo costituzionalmente titolare della supplenza in caso di impedimento del presidente della Repubblica.

            Già non gradita di suo per la provenienza o appartenenza politica al mondo berlusconiano di Forza Italia e, più in generale, del centrodestra di qualsiasi trazione possibile o immaginabile, per non parlare della passata esperienza di consigliere superiore della magistratura, per la quale nelle cronache giudiziarie del Fatto Quotidiano si è più volte cercato di coinvolgerla nel cosiddetto e pur successivo affare Palamara; già sgradita di suo, dicevo, la presidente del Senato è ora diventata agli occhi di Travaglio le peggiore candidata al Quirinale. L’”ideale” – ha egli scritto sarcasticamente-  per “la metamorfosi” imposta al Festival dei due Mondi di Spoleto in “festival dei due Casellati grazie alla contemporanea presenza dei due rampolli”, maschio e femmina, Alvise e Ludovica, l’uno alle prese con la musica e l’altra con le attività promozionali.

            “Chi può meglio simboleggiare la festosa Restaurazione italiana?”, ha chiesto Travaglio dicendo che “non manca nulla” alla presidente Casellati: “il vitalizio extralarge che ingloba anche il periodo in cui fece danni al Consiglio Superiore della Magistratura, seguito per par condicio dalla restituzione degli assegni ai senatori pregiudicati, i voli di Stato per qualunque spostamento anche minimo (un giorno il suo parrucchiere se la vedrà atterrare sul tetto)  e la prestigiosa ascesa sociale dei due figli, di pari passo alla sua”. E così via recriminando.

            Con la Cartabia la polemica nei giorni scorsi è stata meno personale e tranchant ma ugualmente riconducibile, secondo me, alla paura di certi ambienti politici affini alla linea del Fatto di una candidatura della prestigiosa guardasigilli al Quirinale per una successione di genere, diciamo così, al presidente in scadenza della Repubblica. Di genere, perché comporterebbe l’arrivo della prima donna al vertice dello Stato. E, in quanto tale,  potrebbe essere facilitata paradossalmente dalle enormi difficoltà di trovare una soluzione tutta politica sia per la frantumazione dei partiti, e dei rapporti fra di loro, al di là e contro i confini pur larghi della maggioranza di emergenza formatasi attorno al governo Draghi, sia per le circostanze istituzionalmente eccezionali in cui sta maturando la corsa al Quirinale. Che si concluderà come sempre in una volata parlamentare, ma stavolta in un Parlamento sostanzialmente delegittimato dalla riforma tanto voluta dai grillini, e concessa loro prima dai leghisti e poi anche dal Pd.

La riduzione di più di un terzo dei seggi parlamentari sconvolgerà le nuove Camere, da rinnovare massimo l’anno dopo le elezioni presidenziali.  E ciò in un equilibrio, o squilibrio, di forze scontatamente diverso da quello già molto anomalo uscito dalle urne nel 2018. Risulterà per forza di cose offuscata o quanto meno ridotta, sotto la crosta di una Costituzione indifferente a questo problema, la rappresentatività politica del capo dello Stato destinato a succedere a Mattarella. A meno che quest’ultimo non ci sorprenda con una scelta generosa, che sarebbe quella di accettare una rielezione sostanzialmente a termine per lasciare in pratica la scelta del successore alle nuove Camere.

Se una soluzione di genere, ripeto, dovesse invece far superare l’incrocio garantendo stabilmente al Quirinale, per sette anni, una donna fra le due oggi meglio piazzate nella corsa, ci sarebbe da immaginare la preoccupazione o lo sconcerto di un certo giustizialismo penale e persino culturale.  Che avrebbe motivo di temere, per esempio, una resistenza sia della Casellati sia della Cartabia alla promulgazione di leggi o norne anomale, e a rischio serio di incostituzionalità, come quella imposta dai grillini all’epoca della loro alleanza con i leghisti sulla cosiddetta prescrizione breve. Con le due donne suonerebbe davvero al Quirinale tutt’altra musica.

Pubblicato sul Dubbio

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