La prima pagina del Foglio curiosamente negata a un ricordo di Giampaolo Pansa

 

            Conosco bene la singolarità particolarità e quant’altro del giornale fondato e a lungo diretto da Giuliano Ferrara –Il Foglio-prima di passarne lIl Foglio.jpege redini a Claudio Cerasa,  senza tuttavia smettere giustamente di occuparsene a tempo pieno. E Dio solo sa quanto spazio anche fisico riesca a riempire Giuliano.

            Ho peraltro collaborato per un certo tempo  con lui, pur dopo uno scontro dei suoi, a testa bassa, quando dirigevo Il Giorno e Ferrara sul Corriere della Sera, con le sue “bretelle rosse”, mi contestò la gestione di una letteraccia di Palmiro Togliatti, fotocopiata dal mio corrispondente da Mosca  negli archivi degli ormai sfasciati servizi segreti sovietici, sul destino infame ma meritato, secondo lui, dei prigionieri italiani in Russia durante la seconda guerra mondiale. “Sai, è un po’ cresciuto sulle ginocchia di Togliatti”, lo giustificò Bettino Craxi al telefono ricordandomi le funzioni di segretaria del leader comunista svolte a lungo dalla mamma di Giuliano.

            Conosco anche la permalosità abituale di noi giornalisti quando cerchiamo di farci le pulci a vicenda. Eppure non me la sento di nascondere  lo stupore che mi ha procurato il trattamento riservato alla morte e alla storia professionale e umana di Giampaolo Pansa dal Foglio. Che gli ha negato anche una breve, come si dice in gergo tecnico, in prima pagina. Dove di solito finiscono giustamente i morti, diciamo così, eccellenti per onorarne la memoria, per rendere gli onori quando si tratta di un avversario o di un concorrente.

            Al Giampa sono stati dedicati invece una breve “preghiera”, pur arguta e onorevolissima, di Camillo Langone in seconda pagina, e un ricordo meno breve e ugualmente onorevolissimo, per carità, di Sergio Soave nell’ultima pagina. Che -lo riconosco- è tale solo di numero perché vi si trovano anche le lettere, preziose per la selezione che se ne fa in redazione  e per le risposte che ogni tanto si meritano, la rubrica “Alta Società” del simpatico Carlo Rossella e, questa volta, proprio sotto l’articolo di Soave col nome di Pansa nel titolo, la celebre “piccola posta” di Adriano Sofri.

            La buonanima di Pansa, insomma, con un po’ di buona volontà  può considerarsi in buona compagnia pansa.jpegnella collocazione riservatagli dal quotidiano di Giuliano, e ora anche di Cerasa, che contano insieme più del generoso editore subentrato a quelli originari, fra i quali Veronica Lario, l’allora moglie di Silvio Berlusconi, ancora oggi affettuosamente e simpaticamente chiamato “l’amor nostro” dai foglianti, anche se ogni tanto gli riservano cattive sorprese, com’è del resto giusto che avvenga nei rapporti fra persone libere e d’ingegno. Ma, insisto, anche a costo di apparire villano e insolente, un posticino in prima pagina sul Foglio la morte di un collega come Giampaolo Pansa se lo meritava.  E non si può neppure dire, tragicamente, che sarà per la prossima volta.

           

Dietro le quinte del teatrino della giunta del Senato per il processo a Salvini

            L’ultimo caso emblematico dello spettacolo d’ipocrisia che riesce a produrre la politica  è quello in corso nella giunta delle immunità del Senato. Dove si sta giocando il primo tempo della partita apparentemente giudiziaria ma in realtà tutta politica, appunto, contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per il cosiddetto affare Gregoretti. Che è il nome della nave della Guardia Costiera a bordo della quale più di cento immigrati, dopo essere stati soccorsi, rimasero bloccati per qualche giorno nel porto di Augusta a fine luglio dell’anno scorso, in attesa che fosse concordata la loro distribuzione fra vari paesi europei.

            Per il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania fu sequestro di persona, escluso invece dalla Procura della Repubblica, cioè dall’accusa. Per Salvini, e per il centrodestra che lo appoggia, fu invece legittima azione in difesa dei confini nazionali dall’immigrazione clandestina, come nell’analoga vicenda dell’anno precedente sulla nave Diciotti, anch’essa della Guardia Costiera, che si  risolse col rifiuto del Senato di autorizzare il processo. Ciò avvenne con i voti del centrodestra e dell’allora maggioranza gialloverde di governo, a trazione numericamente grillina. Ma stavolta i grillini hanno cambiato idea e posizione, guarda caso dopo la rottura politica con i leghisti, ritrovandosi con la sinistra a favore del processo.

            Nella giunta delle elezioni, come nell’aula del Senato, visto anche che si dovrà votare in modo palese per regolamento, c’è a favore del processo una maggioranza che però non ha il coraggio di assumersi la responsabilità del sì prima delle elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna Salvini.jpege in Calabria. Essa teme con quel sì di favorire Salvini per le buone ragioni che evidentemente sa a disposizione del leader leghista in veste di vittima di una macchinazione politica. Non a caso l’ex ministro sfida in questi giorni i giallorossi della politica a mandarlo sotto processo, così come sfida la magistratura ad allestire a Catania un’aula capace di contenere tutto il pubblico a lui favorevole e desideroso di farsi sentire e vedere.  

            Per ritardare il voto la maggiorana di governo ricorre a sostanziali espedienti, come quello adoperato appunto in giunta da un grillino chiedendo al tribunale dei ministri un supplemento di documentazione sanitaria sugli immigrati trattenuti a bordo della nave Gregoretti. Ma, messa ai voti dal presidente della giunta, che è il forzista Maurizio Gasparri, questa mossa dilatoria è stata respinta a parità di voti: 10 contro 10. La maggioranza, battuta per alcune assenze, fra le quali due per missione,  ha allora protestato accusando di scorrettezza il presidente per avere lui stesso partecipato alla votazione,  profittando di chi non c’era e rendendosi decisivo per il risultato.

            Gasparri, che presiede la giunta proprio perché esponente dell’opposizione, cui spetta questo ruolo di garanzia, ha reagito rivendicando i suoi diritti parlamentari, essendo peraltro dichiaratamente e legittimamente convinto delle ragioni di Salvini, per il quale proporrà il rifiuto dell’autorizzazione a processarlo quando si tratterà di votare.

             A proposito proprio della data di questo voto in giunta Gasparri ha deciso di affidare all’ufficio di presidenza dell’organismo di Palazzo Madama, anziché ad una trattativa o a una consultazione con la presidente del Senato, la decisione di rispettare o no anche in quella sede la sospensione dei lavori parlamentari disposta dalla conferenza dei capigruppo a cominciare dal 20 gennaio per la coincidenza con l’ultima settimana di campagna elettorale per le regionali emiliano-romagnole e calabresi. Ma disgraziatamente per la maggioranza il 20 gennaio, lunedì, scadranno anche i tempi regolamentari a disposizione della giunta per evadere, diciamo così, la pratica trasmessa dal tribunale dei ministri di Catania.

            La maggioranza, a questo punto, sempre col proposito di non favorire la campagna elettorale di Salvini, ha preteso e pretende  che Gasparri non facesse e non faccia votare sulla scadenza del 20 gennaio, accampando il rispetto dovuto agli assenti e a impegni che il presidente avrebbe preso in tal senso, ma da lui negati perché contrari al regolamento, almeno nei termini e nei tempi indicati dai suoi critici ed avversari politici.

            Questi sono i fatti nella loro essenza e chiarezza, al netto di tutte le manovre, i pretesti e quant’Stampa suabbazia.jpegaltro: fatti nei quali convergono le esigenze tattiche contro Salvini di grillini, piddini, renziani e sinistra di “liberi e uguali”. E dei quali si guardano bene dal discutere i piddini nel ritiro in cui sono Il Fatto sul Pd.jpegimpegnati in questi giorni un’abbazia del Reatino, in vista della verifica di governo di fine mese, sempre dopo le elezioniRolli sul Pd.jpeg regionali del 26 gennaio, e poi di un congresso che vorrebbe essere di rifondazione del partito E’ un appuntamento, quello nell’abbazia, che si è prestato a non pochi titoli di giornale, commenti e vignette più o meno sfottenti, e forse non immeritati, perché la trasparenza non va solo invocata ma anche praticata nella pur dura lotta politica in cui si è impegnati.

 

 

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Il giornalismo italiano orfano di Giampaolo Pansa e del suo coraggio

Per la quantità degli importanti giornali ai quali ha collaborato nella sua lunga attività professionale, qualche volta andandosene e tornandovi, com’è accaduto al Corriere della Sera, che se lo era ripreso da poco destinando i suoi articoli ad una rubrica dal significativo titolo “Ritorno in Solferino”, poteva essere considerato un nomade Giampaolo Pansa: Giampa per gli amici, appena scomparso all’età di 84 anni.

Al di là dell’amicizia, quando si era creata una certa confidenza fra di noi, quasi coetanei, con soli tre anni di distanza l’uno dall’altro, non ho mai smesso di considerare Giampa un Maestro, con la maiuscola: come altri davvero più anziani e quindi con tanta maggiore esperienza. Penso, in particolare, a Indro Montanelli, Enzo Bettiza e l’ancor vivo Sergio Lepri, di cui ho appena scritto sul Dubbio recensendone una biografia.

Debbo dire che è proprio strana questa nostra editoria giornalistica, non a caso d’altronde Giannelli su Pansa.jpegaffollata di editori, diciamo così, di risulta: spesso più improvvisati che professionali, o più impuri che puri, come si dice comunemente per dolersi di quanti usano i loro giornali più per coltivare meglio altri e prevalenti loro interessi, senza la trasparenza distintiva come quella della nostra testata, che per tutelarne e diffonderne il successo nelle edicole. E’ proprio strana questa nostra editoria, dicevo, se ad uno come Pansa non è mai capitato di diventare direttore di un quotidiano o di un settimanale, fra quelli per i quali ha lavorato o quelli che avrebbero potuto benissimo assumerlo solo per farsi da lui guidare.

Vi confesso che quando divenni direttore del Giorno, ancora di proprietà dell’Eni, il primo al quale pensai con un certo imbarazzo fu proprio lui, Giampa, che per quel quotidiano era passato lasciando tracce di tutto rispetto, come alla Stampa, al Corriere e poi a Repubblica, a Panorama, all’Espresso, al Riformista, a Libero, alla Verità.  Gliene parlai e lui mi tolse subito dall’imbarazzo dicendo, credo poco sinceramente, solo per garbo nei miei riguardi, che non vi aveva mai aspirato perché gli piaceva troppo scrivere. E dirigendo bene un giornale, non se avrebbe avuto più il tempo, o non gliene sarebbe rimasto abbastanza.

La verità è che Giampa- diciamolo con franchezza e onestà- era troppo libero, e troppo imprevedibile nella sua libertà, perché un editore, specie se impuro, con interessi cioè diversi e prevalenti rispetto al giornale posseduto, gliene affidasse il timone. Peccato davvero, perché sarebbe stato un direttore della stessa eccellenza dei suoi articoli, delle sue inchieste, delle sue polemiche, dei suoi tantissimi libri, delle sue immagini, con le quali sapeva dare corpo efficacissimo ai suoi giudizi.

Penso, per esempio, alla “balena bianca” alla quale volle e seppe  paragonare la malandata Democrazia Cristiana, che pure sembrava allora inaffondabile, non immaginando nessuno che la cosiddetta prima Repubblica potesse morire non tanto dei suoi mali quanto degli sconfinamenti della magistratura e dell’uso, o abuso, fattone da partiti, uomini e gruppi di potere emergenti, o rivelatisi incapaci di vincere le loro battaglie con i mezzi ordinari. Penso all’”Elefante rosso” con cui egli battezzò quella potente macchina organizzativa e politica del Pci; o al “parolaio rosso” col quale Pansa seppe e volle liquidare, agli albori, o quasi, della cosiddetta seconda Repubblica, l’allora leader della Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, Che nel 1998 affondò il primo governo di Romano Prodi: quello dell’Ulivo, cui sarebbe subentrato senza un passaggio elettorale, pur logico col nuovo sistema maggioritario, un governo di Massimo D’Alema sostenuto da transfughi del centrodestra assemblati alquanto disinvoltamente da quel giocoliere che sapeva essere, quando ne aveva voglia, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Ma penso anche al “Dalemoni” partorito dall’immaginazione di Pansa, sempre agli albori della cosiddetta seconda Repubblica, di fronte alle prove d’intesa, sopra e sotto traccia, fra D’Alema e Silvio Berlusconi. Che arrivarono ad un palmo dall’accordo vero e completo prima in una delle commissioni bicamerali sucedutesi per la riforma costituzionale, e poi addirittura in un turno di elezioni presidenziali per l’avvicendamento al Quirinale alla scadenza del mandato del presidente in carica. A quest’ultimo proposito fu proprio all’ultimissimo momento che Berlusconi si tirò indietro, temendo più la sorpresa dei suoi ancòra tanti elettori che la delusione dell’amico e consigliere Giuliano Ferrara. Che sull’intesa aveva un po’ scommesso, consapevole che da soli né il centrodestra né il centrosinistra, nonostante le speranze accese dal carattere prevalentemente maggioritario del nuovo sistema elettorale, ce l’avrebbero fatta a governare l’Italia tenendosi stretta la famosa Costituzione “più bella del mondo”, di cui parlava la sinistra ogni volta che si cercava seriamente di cambiarla.

Negli ultimi tempi, prima di riapprodare al Corriere, e rompendo con i giornali di sostanziale centrodestra che l’ospitavano da quando la sinistra lo aveva  praticamente espulso,  trattandolo come un Il sangue dei vinti.jpegtraditore per avere voluto raccontare e ricostruire con onestà la Resistenza, nel rispetto dei “vinti” e non solo dei vincitori, spesso sanguinari al di là delle esigenze di una pur drammatica guerra civile; negli ultimi tempi, dicevo, Pansa era diventato molto pessimista sulle sorti del Paese. Egli era sopraffatto dall’incompetenza dei grillini, dai limiti della sinistra e dalla paura del “seduttore autoritario” Matteo Salvini. Una volta si lasciò scappare persino un mezzo auspicio che venisse fuori un generale a rimettere ordine, come capitò di pensare a Ugo La Malfa nel 1978 reagendo al sequestro di Aldo Moro con la richiesta ad altissima voce, nel famoso “transatlantico” di Montecitorio, della pena di morte. Che solo un regime militare avrebbe potuto e potrebbe ripristinare.

Autore frequente di scoop, a volte generati solo dalla sua capacità di previsione e di lettura del dibattito politico, che lo incuriosiva anche negli aspetti fisici, come dimostrava scrutando Il binocolo di Pansa.jpegcol binocolo dalle postazioni della stampa palchi e tribune dei congressi di partito, nell’epoca in cui erano ancora di moda questi riti della democrazia, credo che il più clamoroso resti quello del 1976.

A crisi ancora aperta dopo le elezioni anticipate provocate dai socialisti di Francesco De Martino, mentre democristiani e comunisti trattavano la formazione di una maggioranza emergenziale di cosiddetta solidarietà nazionale, destinata a realizzarsi attorno ad un  governo monocolore dc presieduto da Giulio Andreotti, l’allora inviato del Corriere della Sera Pansa seppe rompere letteralmente la corazza politica del segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che l’indossava fuori e dentro il Bottegone, come si chiamava l’enorme palazzo di via delle Botteghe Oscure che era la sede del maggiore partito comunista d’Occidente.

Alla presenza del tanto vigile quanto insofferente Tonino Tatò, il portavoce e molto altro del segretario del Pci, Pansa seppe strappare a Berlinguer un annuncio così clamoroso e  imbarazzante Berlinguer.jpegper i militanti da essere ignorato, cioè censurato, il giorno dopo dal giornale ufficiale del partito. In particolare, sapendo bene quanto forti fossero i timori fuori e dentro l’Italia di una maggioranza condizionata dai comunisti, e dai loro rapporti già difficili ma pur sempre forti con l’Unione Sovietica, Berlinguer disse di considerare l’autonomia del suo partito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato.

Poi, in verità,  dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro per mano delle brigate rosse, anche per evitare il rafforzamento di quell’ombrello col riarmo missilistico dell’Alleanza Atlantica di fronte agli SS 20 sovietici schierati nell’est europeo contro i paesi occidentali, lo stesso Berlinguer si sarebbe tirato indietro dalla maggioranza tornando all’opposizione, all’inizio del 1979. Ma quell’annuncio strappatogli da Pansa era detonato come una bomba sullo scenario politico italiano e internazionale. Il segretario del Pci aveva scavato con quelle parole un solco destinato a produrre i suoi frutti anche dopo la ritirata del 1979. I rapporti del Pci con Mosca non sarebbero più tornati gli stessi. E la stessa Unione Sovietica sarebbe finita entro una ventina d’anni.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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