Paolo Armaroli su Conte, l’affare Gregoretti, Salvini e dintorni

Macché giornalista di strada, come si dipinge! La verità è che Francesco Damato è una colonna del giornalismo. Un fuoriclasse. Per anni braccio destro e sinistro di Indro Montanelli, e scusate se è poco. Direttore di giornale. Commentatore e notista tra i più autorevoli di accadimenti politici e istituzionali. Un uomo che ha avuto dimestichezza con cavalli di razza quali Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi e tanti altri. E che ha dimestichezza anche con “questi qui”. Perché ancora frequenta, Iddio lo perdoni, Montecitorio e Palazzo Madama. Teatri della democrazia che meritano il massimo rispetto, sicuro. Ma gli attori che colà recitano sono quelli che sono. E un Ermete Zacconi, per dire, non lo si scorgerebbe neppure con il lanternino di Diogene. Come se tutto questo non bastasse, Damato ha una memoria di ferro degna di un Pico della Mirandola, che gl’invidio. Perciò mi permetterei di invitarlo a scrivere due svelti saggi alla sua maniera. Il primo. “Storielle di una Repubblica una e trina”. Una, perché i fondamentali della Costituzione sono sempre gli stessi. Trina, perché abbiamo avuto la Prima Repubblica dei partiti, la Seconda Repubblica di Silvio Berlusconi e Romano Prodi nata all’insegna del bipolarismo soprattutto grazie al Mattarellum ideato dal Capo dello Stato, e la Terza Repubblica dove, alla faccia della competenza, uno vale uno. E chi si è visto, si è visto. Non ammoniva forse un grande giornalista come Enrico Mattei che la storia d’Italia può essere noiosa ma le storielle sono imperdibili? Il secondo saggio. “Ritratti dall’A alla Zeta. Da Andreotti a Zamberletti”. Sì, l’indimenticabile angelo custode della Protezione civile.

Si deve sapere che questo monumento al giornalismo che è Damato dice un gran bene di me alle mie spalle. E ha avuto il modo, anche qui sul Dubbio, di spifferare ai lettori le stesse cose che afferma in privato. Troppa grazia, Francesco. Si vede che ti fa velo l’antica amicizia. Fatto sta che Damato non ha studiato dalle Orsoline. Voglio dire che è un uomo scafato. Non mi permetto di mettere in dubbio la sua perfetta buonafede nei miei confronti, ci mancherebbe. Ma stai a vedere che mi ha messo in tocco e toga anche per darmi un buffetto, ma piccolo piccolo, dopo tante carezze immeritate? Difatti, non appena viene al merito, con estremo garbo lui si dissocia dal sottoscritto. Perché con una metafora sostiene che il bicchiere di Giuseppe Conte è mezzo pieno e non mezzo vuoto o vuoto del tutto, come ho scritto sul quotidiano diretto da Carlo Fusi.

Ma usciamo dalla metafora, altrimenti rischiamo di far ubriacare il presidente del Consiglio. Damato dice che c’è una bella differenza tra Luigi Di Maio che, prima ancora che l’apposita Giunta del Senato si esprima, anticipa a prescindere che i Cinque stelle non vedono l’ora di mandare sotto processo Matteo Salvini per il caso Gregoretti, e Conte che, assalito dalla mazziniana tempesta del dubbio ( con la d minuscola, beninteso), compulsa nevroticamente agendine, email, messaggi e quant’altro prima di esprimersi al riguardo. Ora, sulla bella differenza siamo perfettamente d’accordo. Perché, al confronto del Capo pentastellato, il presidente del Consiglio pro tempore può essere a buon diritto considerato la reincarnazione di Cavour. Ciò premesso, Damato sospende il giudizio. Anche perché ricorda che Palazzo Chigi ha informato il tribunale dei ministri di Catania che nei giorni caldi della Gregoretti, alla fine di luglio dell’anno scorso, non si è tenuto nessun Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno l’oggetto in questione. Ma questo depone a favore di Matteo Salvini. Perché se Conte avesse avuto da ridire sull’operato dell’allora ministro dell’Interno, avrebbe potuto riunire i ministri e sconfessare pubblicamente il Capitano leghista. Non solo non lo ha fatto, ma non ha mai aperto pubblicamente bocca sull’intera vicenda. E se per caso Conte accertasse che in privato ha avuto qualcosa da ridire, la cosa non varrebbe un fico secco. Perché Conte non è un passante. Non è un privato cittadino, come lo era prima di entrare ( e restare?) in politica. No, è il capo del governo ormai in quinci e quindi dopo essere stato un Carneade nella precedente esistenza. E chi come lui pubblicamente tace, con ogni evidenza acconsente.

A pensar male, si sa, si fa peccato ma spesso s’indovina. E allora suppongo che Conte prenda tempo per non essere preso in contropiede dalle carte che ancora di recente l’ex ministro Giulia Bongiorno, un avvocato che non parla a vanvera, ha confermato che esistono. Concludo, per la gioia del mio amico Damato, con un gloria a Conte. Diavolo d’un uomo, impara alla svelta. Dopo tanto patire, ha imparato il mestiere di presidente del Consiglio schivando ostacoli a più non posso. E in comicità, con quel suo sfruculiare i suoi telefonini, ormai supera addirittura Woody Allen. Ad maiora.

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

Polveri di stelle cadono sulla maggioranza e sullo stesso governo

            Di fronte alle “guerre 5stellari” -come le ha definite col titolone di prima pagina la Repubblica di Repubblica.jpegcarta riferendo sulla crisi dell’omonimo movimento- superiori per impatto sui nostri giornali persino ai venti ancora più forti di guerra vera e propria che soffiano sulla Libia, ed manifesto.jpeghanno maggiormente interessato col solito titolo felice il manifesto, bisogna riconoscere che solo il masochismo di un comico può spiegare l’allegria con la quale Beppe Grillo ha voluto salutare sul suo blog personale l’arrivo dell’anno Grillo nella fossa.jpegnuovo. Che lui in persona, con la sua voce e la sua faccia, ha preannunciato “magnifico” spalando la terra per la fossa nella quale sta sprofondando il suo movimento anche o ancor più nella nuova esperienza di governo col Pd, dopo i danni subiti governando con la Lega.

            Non ci vuole certo la fantasia del pur brillante vignettista del Foglio, che rappresenta Grillo contrariato più dalla permanenza di Luigi Di Maio al Il Foglio.jpegvertice del movimento che dall’espulsione del senatore Gianluigi Paragone, per immaginare che il comico sapesse bene ciò che stava per accadere dalle sue parti mentre scavava  con compiacimento quella fossa a Capodanno.

            Già chiare con le dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro della Pubblica Istruzione, e con i suoi progetti di scomposizione a livello parlamentare, le previsioni di crisi sotto le cinque stelle e dintorni, compreso il governo della ”maratona” di  tre anni ottimisticamente annunciato o promesso da Giuseppe Conte, si sono rafforzate con l’intervento di Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici e gli adoratori, a favore dell’appena espulso Paragone. Che non sarà un campione di coerenza, per carità, come ha documentato con le solite stringatezza e bravura Mattia Feltri sulla Stampa e sul Secolo XIX, ma rappresenta come pochi altri nelle parole, nei fatti e negli sprezzanti giudizi su capi e capetti del movimento, in groppa al quale è arrivato in Parlamento, quel magma di confusione e di velleitarismo che è il partito-non partito inventato nel 2009 da Beppe Grillo. Il quale aveva appena tentato inutilmente di infiltrarsi, diciamo così, nel Pd iscrivendosi alla sezione di Arzachena, in Sardegna, e proponendosi di concorrere alle primarie per la successione a Walter Veltroni, decapitato dai contrasti interni a quell’”amalgama mal riuscito” lamentato da Massimo D’Alema a proposito della fusione fra i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli vari.  

            La coppia Di Battista-Paragone, a piedi o in moto, come si rappresentò qualche tempo fa all’insorgenza delle prime, grosse difficoltà del movimento, al termine di una riunione rovente nel palazzo di Montecitorio, potrebbe terremotare non solo i grillini ma l’intero quadro politico in quest’anno appena cominciato e già stracarico di problemi. In testa ai quali c’è, ai fini della stabilità del governo, la sempre più evidente difficoltà di Di Maio a guidare e controllare quella che sulla carta sarebbe ancòra la componente principale della maggioranza. I provvedimenti di espulsione attorno ai quali lo raccontano impegnato baldanzosamente i retroscenisti fanno immaginare lo scenario di espulsioni dal partito fascista, nel 1943, alla vigilia del famoso Gran Consiglio del 25 luglio.

            So bene che Salvini.jpegvignettisti, analisti, sardine e quant’altro preferiscono immaginare e rappresentare con gli stivali Matteo Salvini, che spesso presta loro il fianco, ma neppure Luigi Di Maio scherza. Non a caso, d’altronde, i due hanno già governato insieme, prima di scoprirsi incompatibili fra di loro: ma non tanto incompatibili, in fondo, se Salvini anche dopo la rottura propose che l’altro capeggiasse una seconda edizione della maggioranza gialloverde. Ricordate?  

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