La pantomima viene tradotta in senso figurato dal dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Giancarlo Oli in “messinscena, cosa e situazione fittizia”: adattissima -credo- a quella creatasi, in apertura della diciottesima legislatura repubblicana, con la candidatura dell’ex ministro Paolo Romani a presidente del Senato, posta da Silvio Berlusconi e contestata dal capo del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio. Il quale ha rifiutato anche solo di parlare di questo e di altro ancora col presidente di Forza Italia, accomunato al pur candidabile ed eleggibile Romani dalla qualifica di pregiudicato, inteso come condannato in via definitiva.
Quella di Berlusconi è una condanna arcinota, per frode fiscale, rimediata dall’ex presidente del Consiglio nell’estate del 2013 e costatagli pure il seggio al Senato conquistato pochi mesi prima. Quella di Romani è una condanna meno nota per peculato, definitiva come tale ma con una pena ancora indefinita perché quella comminatagli in appello dovrà essere ridotta su richiesta della Cassazione per l’entità del danno procurato, e peraltro interamente già rimborsato dall’interessato al Comune di Monza. Di un cui telefonino di servizio, assegnatoli come assessore, nel tempo libero lasciatogli dalle funzioni di ministro, aveva fatto uso in Italia e all’estero una figlia minorenne. All’insaputa del padre, ha sempre sostenuto lo stesso Romani, che tuttavia ne denunciò ad un certo punto lo smarrimento ottenendo il duplicato della sim, che la figlia avrebbe continuato ad usare.
La vicenda è obiettivamente modesta sul piano penale, ed anche lontana. Ma quella politica sollevata contro Romani dai grillini, indisponibili a votarlo al vertice di Palazzo Madama in cambio dell’elezione di un loro esponente con i voti del centrodestra alla presidenza della Camera, non è una vicenda altrettanto modesta. E ad aumentarne lo spessore è stato, volente o nolente, lo stesso Berlusconi prima impuntandosi sulla candidatura del suo fedele amico, poi ponendo la questione di un incontro fra tutti i partiti con la sua personale e irrinunciabile partecipazione, ben conoscendo il disagio in cui mediaticamente e politicamente metteva Di Maio all’interno e all’esterno del suo movimento cresciuto a pane e giustizialismo, poi ancora finendo -sempre volente o nolente- per contestare il diritto di Matteo Salvini di rappresentare l’intero centrodestra nella trattativa sulle presidenze parlamentari, infine creando -in questo caso più volente che nolente, di sicuro- le condizioni politicamente utili al Partito Democratico dell’ex segretario Matteo Renzi per entrare nella partita dalla quale si era estraneato, o quasi, anche a causa della sua forte crisi interna dopo la batosta elettorale del 4 marzo.
E’ evidente, da questo elenco di fatti e circostanze difficilmente contestabili, la pantomima -come dicevo- del caso Romani. Che è anche una scatola cinese, nella quale cioè se ne trovano altre non tutte limitate alla partita delle presidenze parlamentari, cui dovrà immediatamente seguire quella della formazione del governo, che ne fa già ora da sfondo.
La natura complessa di questa pantomima spiega anche la posizione scomodissima nella quale ha accettato di rimanere lo stesso Romani, prigioniero pure lui della matassa del suo caso, come lo si vede in tante foto in mezzo al cancello d’ingresso della residenza romana, privata e politica, di Berlusconi. Una sua rinuncia, peraltro all’interno di un partito in cui non mancherebbero certo altri aspiranti al vertice del Senato, di ambo i sessi, anche quindi a vantaggio di una soluzione per la prima volta femminile per la seconda carica dello Stato nella storia della Repubblica, avrebbe già sbloccato la situazione. Che invece Berlusconi ha preferito evidentemente complicare ad avversari e amici, ad alleati e ad avversari, forse anche per ricordare che, per quanto incandidabile, pregiudicato e com’altro preferiscono definirlo nemici e concorrenti, e sorpassato elettoralmente dal partito di Salvini, lui ancora c’è.