Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è di cultura e formazione morotea, orgogliosamente morotea, anche se passò dall’insegnamento universitario alla politica, succedendo al fratello Piersanti ucciso dalla mafia il 6 gennaio del 1980, due anni dopo l’assassinio di Moro. Che era stato molto amico di loro padre, Bernardo, ministro già ai tempi di Alcide De Gasperi e infine anche di Moro, al Commercio Estero.
Da moroteo –ripeto, orgogliosamente moroteo- il capo dello Stato starà pensando in questi giorni all’esperienza del compianto statista pugliese nel 1976, quando l’allora presidente della Democrazia Cristiana, ma in realtà molto più di presidente e persino di segretario del partito, data l’autorevolezza da tutti riconosciutagli, gestì un risultato elettorale analogo a quello della notte fra il 4 e il 5 marzo di questo 2018.
Anche allora dalle urne uscì un Parlamento senza governabilità, in cui cioè nessun partito disponeva da solo, o con alleati più o meno disponibili e compatibili, della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, e quindi anche della fiducia, se votata a ranghi completi al Senato e alla Camera. Completi, perché in realtà a ranghi non completi a un governo per ottenere la fiducia basterebbe la maggioranza dei presenti e votanti, non quella dei componenti dell’assemblea. Ma sulla carta un governo che nasce seriamente, e non punti a vivere alla giornata, a maggioranza delle presenze più o meno occasionali, deve poter contare sulla maggioranza assoluta del Parlamento. Questo almeno chiede il presidente della Repubblica ad un governo prima di nominarlo. E infatti Giorgio Napolitano nel 2013 tolse il pre-incarico di presidente del Consiglio all’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani quando si sentì formulare la proposta di un governo chiamato allegramente “di minoranza e combattimento”, appeso agli imprevedibili umori dei grillini.
Nel 1976 si votò col sistema proporzionale, col quale è più facile che si elegga un Parlamento senza una maggioranza precostituita o precostituibile, anche se quello fu il primo inconveniente del genere nella storia della Repubblica. In questo 2018 invece la situazione di ingovernabilità è stata prodotta da un sistema elettorale misto, per i due terzi proporzionale e per un terzo garantito dal metodo maggioritario. Che evidentemente non ha funzionato. Anzi, ha funzionato al contrario.
Di fronte al risultato elettorale neutro del 1976 Moro spiegò ai parlamentari del suo partito, disorientati e già pronti, alcuni addirittura smaniosi di andare ad altre elezioni anticipate, come quelle appena svoltesi, che dalle urne erano usciti “due vincitori”: troppi per bastare. L’uno era il loro partito, l’altro il Pci di Enrico Berlinguer, nessuno dei due provvisto di alleati sufficienti a farli governare l’uno contro l’altro, come pure entrambi avevano promesso di fare ai loro elettori.
Piuttosto che ripetere le elezioni, e magari perdere del tutto, comunque nel pieno di una gravissima situazione economica, per non parlare del terrorismo di cui lui stesso era destinato a rimanere vittima due anni dopo, Moro sostenne l’opportunità di cercare una tregua fra i due vincitori. E nacque la maggioranza cosiddetta di solidarietà nazionale, formatasi attorno ad un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti: un uomo studiato apposta per garantire il Vaticano e gli alleati americani, a dir poco sospettosi di una maggioranza condizionata dall’astensione prima e dalla fiducia poi del Pci.
La ricetta morotea della governabilità garantita in un Parlamento sulla carta ingovernabile grazie alla tregua, cioè a un’intesa, fra i due vincitori come si potrebbe applicare alla crisi che il moroteo Mattarella è costretto ora dalle sue funzioni a gestire? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe cominciare a individuare i vincitori e i vinti delle elezioni del 4 marzo scorso.
Vincitori si proclamano a ragione i grillini per i tanti voti che hanno preso, per giunta da soli. Ma che si sono rivelati insufficienti a garantire la fiducia parlamentare al governo monocolore che il candidato delle 5 stelle a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, ha progettato e proclamato riempiendolo di tecnici e professori, almeno nelle qualifiche professionali.
Vincitore si proclama, anch’essa a ragione, la coalizione di centrodestra per avere largamente superato quella di centrosinistra raccoltasi attorno al Pd. Che pertanto può ben essere indicato come il partito sconfitto: tanto che il suo segretario ne ha preso atto ed ha prenotato le dimissioni, operative però solo dopo l’insediamento delle nuove Camere e la formazione del nuovo governo, se e quando si riuscirà a farne uno con la composizione di queste assemblee parlamentari. Dove neppure il centrodestra prevalso sul centrosinistra ha i numeri sufficienti per guadagnarsi la fiducia.
All’interno tuttavia del centrodestra si è svolta la lotta alla leadership, vinta alla grande, non di misura, da Salvini su Berlusconi, o il proconsole Antonio Tajani indicato dall’ex presidente del Consiglio alla vigilia del voto e pronto, almeno a parole, a farsi carico del ruolo, anche a costo di perdere la più sicura e retribuita presidenza del Parlamento Europeo: rischio comunque evitato.
La trazione leghista del nuovo centrodestra, subìta da Berlusconi in un modo che vi lascio immaginare, renderà probabilmente più difficile a Salvini la ricerca- cui Berlusconi, sornione, lo ha già sfidato- dei più o meno “responsabili” di turno disposti a cambiare collocazione, rispetto a quella assunta in campagna elettorale, per concorrere alla nuova maggioranza. Ma se dovesse tentare, con tanto di incarico del capo dello Stato già reclamato, e non dovesse riuscire a fare quadrare i conti, a dispetto della fila degli aspiranti volontari immaginata dal solito Renato Brunetta, non credo proprio che Salvini si rassegnerebbe a passare dalla categoria dei vittoriosi a quella degli sconfitti. Al contrario, temo che si sentirebbe ugualmente uno dei due usciti vincenti dalle urne, ma azzoppato dal destino cinico e baro, o qualcosa del genere, e svincolato a quel punto dal patto di coalizione sino ad allora rispettato.
La rinuncia di Salvini obbligherebbe per ragioni di igiene politica e istituzionale il povero Mattarella a far tentare l’avventura del governo a Di Maio. Il quale a quel punto potrebbe essere tentato di cercare una sponda nel Pd, uscito malconcio dalle urne e quindi abbastanza debole nella trattativa. Ma quel diavolo di Renzi, dimissionario ma non abbastanza, avvertendo la smania di presunti amici e concorrenti di rispondere ai grillini come la monaca di Monza nei Promessi Sposi di Manzoni, li ha fermati sul bagnasciuga reclamando la coerenza di mettersi all’opposizione. Ed è arrivato persino a sfidare Mattarella –da lui voluto ad ogni costo al Quirinale tre anni fa, rompendo il famoso patto del Nazareno con Berlusconi- a fargli il torto di assecondare il coinvolgimento del Pd in una maggioranza con Di Maio, dopo avergli negato per due volte l’anno scorso elezioni anticipate da lui considerate salvifiche dopo la batosta referendaria sulla riforma costituzionale.
Ma Mattarella davvero sarebbe tentato da questa operazione, come Renzi sospetta e molti vociferano? Questo è il punto da chiarire, pur cercando di sottrarsi alla domanda con la scusa di attendere l’insediamento delle Camere e la prova che i partiti daranno dei loro umori o progetti con l’elezione dei presidenti delle assemblee.
Se vale la lezione di Moro sui due vincitori in qualche modo condannati ad accordarsi per una tregua, Mattarella dovrebbe spendersi per un accordo fra grillini e leghisti, verificando anche la tenuta dei grillini di fronte ad una simile prospettiva, pur congeniale a tante affinità fra i rispettivi elettorati, già mischiatisi a livello locale. Lo dimostrò due anni fa l’arrivo della grillina Virginia Raggi in Campidoglio con i voti leghisti e dei Fratelli d’Italia, uniti nel ballottaggio contro il candidato renziano Roberto Giachetti. Ricordate?
Se la lezione di Moro non valesse o non fosse più considerata attuale dal moroteo Mattarella, la lancetta della bilancia del Quirinale dovrebbe spostarsi nella direzione opposta a quella reclamata da Renzi. Che pertanto –incredibile a dirsi- si rivelerebbe suo malgrado, a sua insaputa, più moroteo di Mattarella.
Che pasticcio, signori. E quali praterie per i soliti speculatori che non vedono l’ora di tornare a giocare, se mai ne hanno perso la voglia, con i titoli del nostro debito pubblico nei mercati finanziari.
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