Mattarella “augura” a Di Maio e a Salvini di non assumere le presidenze delle Camere

            Abituato a cogliere, intuire e quant’altro anche i sospiri del presidente della Repubblica di turno, il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha fatto conoscere la perplessità, se non la contrarietà, del capo dello Stato di fronte all’ipotesi, emersa nei giorni scorsi dalle cronache politiche, che Luigi di Maio e Matteo Salvini si lascino tentare direttamente e personalmente dalle presidenze delle Camere. Ancora nelle ultime ore -per dirne una- il nonno o lo zio dei Fratelli d’Italia, quale può essere considerato l’ex ministro Ignazio La Russa, ha sollecitato più o meno maliziosamente il segretario della Lega a farsi eleggere presidente del Senato, anche per avvicinarsi meglio -ha detto l’esponente della destra- all’incarico o preincarico di presidente del Consiglio cui aspira, magari assumendo in un primo momento la veste di esploratore. Che è piena di precedenti nella storia di Palazza Madama, pur se, a dire il vero, mai tradottasi poi nel ruolo di presidente del Consiglio. E in questo forse c’è tutta la malizia di La Russa.

            Ebbene, il quirinalista del Corriere della Sera,  dopo avere pur riferito del “fastidio” procurato a Mattarella da tutte le voci che lo coinvolgono negli sviluppi dell’intricatissima situazione politica creatasi con i risultati elettorali del 4 marzo, ha attribuito al capo dello Stato “l’augurio” che i presidenti delle nuove Camere – destinati peraltro ad essere i suoi più diretti interlocutori, per non parlare della funzione di supplente al Quirinale spettante al presidente del Senato in caso di necessità-  “abbiano un profilo naturalmente istituzionale”. Che significa -ha spiegato Breda- “poter essere considerati per autorevolezza al di sopra delle parti”. E’ una condizione francamente difficile per due protagonisti come sono diventati col risultato delle elezioni il “capo” dei grillini e il segretario della Lega. Che dopo avere sorpassato nelle urne il partito di Silvio Berlusconi, si è autoproclamato leader del centrodestra, e non solo candidato alla guida del governo, provocando un putiferio ad Arcore e dintorni.

            In effetti, anche se Mattarella non può dirlo papale papale per ragioni di galateo istituzionale e personale, per cui bisogna accontentarsi delle parole dell’autorevole quirinalista del maggiore giornale italiano e cercare di interpretarle al meglio, due presidenti di Camere come Di Maio e Salvini sarebbero un po’ troppo ingombranti per il capo dello Stato. Ma anche per le loro stesse assemblee, pur se nella prima Repubblica fu a lungo al vertice del Senato un uomo della Dc per niente defilato come il democristiano Amintore Fanfani. Che nel 1973, per esempio, convocò a Palazzo Giustiniani, pertinenza del Senato, i capicorrente del suo partito per concordare al millesimo le conclusioni del congresso che stava per aprirsi, capovolgendo per giunta gli indirizzi politici emersi dalle assemblee sezionali e regionali che lo avevano preceduto con l’elezione dei delegati. Fanfani praticamente licenziò Giulio Andreotti dalla guida di un governo con i liberali per sostituirlo con Mariano Rumor alla guida di un governo con i socialisti, e il proprio delfino Arnaldo Forlani dalla segreteria del partito per assumerla direttamente lui.

            Anche nella cosiddetta seconda Repubblica non sono mancati presidenti di Camere politicamente alquanto ingombranti, il più emblematico dei quali è stato sicuramente Gianfranco Fini, spintosi nel 2010 ad ospitare nel suo ufficio amici e colleghi, di partito e non, per promuovere la caduta del governo Berlusconi in carica, dalla cui maggioranza era stato eletto due anni prima al vertice di Montecitorio. Ma neppure i presidenti uscenti delle Camere, Pietro Grasso e Laura Boldrini, hanno scherzato lasciando i loro partiti di provenienza per allestirne all’ultimo momento un altro.

            Forse proprio alla luce di questi precedenti, e in un contesto politico ancora più precario, o meno solido, se vogliamo risalire agli anni di Fanfani, il presidente Mattarella potrebbe sentirsi a disagio all’idea di trovarsi direttamente e personalmente ai vertici delle Camere i due vincitori delle elezioni del 4 marzo, come vengono comunemente chiamati e considerati Di Maio e Salvini. Vincitori, tuttavia, che Mattarella preferisce chiamare e considerare “prevalenti”, come ci ha raccontato in un’altra occasione proprio il quirinalista del Corriere della Sera ricordando che nessuno dei due dispone, col proprio partito o con la propria coalizione elettorale, di una maggioranza parlamentare autosufficiente.

Vecchi e nuovi avvoltoi sulla scorta di Aldo Moro trucidata in via Fani

La sfortunata scorta dell’ancor più sfortunato Aldo Moro -sopravvissutole per 55 giorni non so se più penosi o drammatici, nella consapevolezza che lui aveva, pur detenuto nella prigione allestitagli dalle brigate rosse, della situazione che evolveva ai suoi danni nei palazzi della politica- ha subìto torti che le potevano, anzi le dovevano essere risparmiate a 40 anni dal suo eccidio.

Mi ha fatto una certa impressione, lo confesso, non ritrovarne le immagini nella nuova lapide sistemata all’incrocio fatale fra le vie Fani e Stresa, a Roma, dove Moro fu sequestrato la mattina del 16 marzo 1978 fra il sangue dei cinque uomini addetti alla sua protezione. Fra i quali, senza voler fare torto agli altri, per carità, ricordo in modo particolare il caposcorta Oreste Leonardi. Che per noi giornalisti abituati a seguire Moro era sempre stato un punto di riferimento cordiale e prezioso. Bastava un suo sorriso o accigliamento per capire ciò che stesse accadendo di volta in volta attorno all’uomo che lui accudiva, oltre a proteggere militarmente.

In quella tragica mattina del sequestro, seduto accanto al collega e sottoposto Domenico Ricci, che conduceva l’auto, quando anche lui  era stato raggiunto dalle micidiali raffiche dei terroristi, prima ancora di cercare di rispondere al fuoco il povero Leonardi si voltò indietro verso Moro e tentò di saltargli addosso per proteggerlo col suo corpo.

Intervistata  e pentita, bontà sua, del “macello” raccontatole da Mario Moretti, il capo dell’operazione, la terrorista Adriana Faranda si è giustificata con Ezio Mauro, che la intervistava per Repubblica e per la Rai, parlando degli effetti inevitabili dello stato di “guerra” in cui i suoi compagni si trovavano. Ed ha assicurato che i terroristi, usciti indenni dall’agguato, senza neppure un ferito, fossero rimasti sorpresi della reazione  della scorta di Moro, risultata inferiore alle loro aspettative.

Ma il presidente della Dc -benedetta donna-  era stato selezionato, e preferito ad obiettivi come Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, allora presidenti rispettivamente del Consiglio dei Ministri e del Senato, proprio in considerazione dei deficit di sicurezza riscontrati negli appostamenti. Penso, fra l’altro, ai percorsi abitudinari e ai mitra della scorta depositati nei bagagliai delle due auto: quella blindata ma troppo vecchia in cui viaggiava lo statista democristiano, e quella neppure blindata degli agenti che la seguivano.

Oltre alla curiosa  pietà di Adriana Faranda abbiamo dovuto sorbirci nei giorni scorsi lo sprezzante, vomitevole dileggio dei familiari della scorta da parte della terrorista Barbara Balzerani con quella sua uscita contro “il mestiere delle vittime”. D’altronde, già nelle aule giudiziarie i sequestratori e assassini di Moro avevano deriso dietro le sbarre delle loro gabbie una vedova -credo proprio di Oreste Leonardi- perché sorpresi che portasse ancora il lutto.

Al sangue della scorta di Moro si è tuttavia richiamato poco felicemente, a mio avviso, anche uno scrittore ed ex senatore come Claudio Magris per difenderne sul Corriere della Sera il ricordo dalla presunta, assai presunta “dimenticanza” calata sulle vittime del brutale assalto, e denunciata su tutta una pagina interna del maggiore quotidiano italiano. E poi anche,  se non soprattutto, per difendere col  ricordo di tutto quel sangue versato come in un mattatoio, la cosiddetta linea della fermezza proclamata e adottata dopo il sequestro dalle contestazioni, peraltro aumentate col tempo. Ne ha appena parlato, in una intervista al Mattino, l’allora ministro Ciriaco De Mita per chiedersi quale diritto avessero lui e gli altri sostenitori di quella posizione di disporre della vita di Moro. Che era poi -mi permetto di aggiungere- la vita della stessa Dc e, più in generale, di tutto il sistema che ruotava attorno all’allora partito di maggioranza.

Beh, su questo dissento da Magris, col quale il povero Moro aveva peraltro polemizzato l’anno prima di morire, in un editoriale sul Giorno del 20 gennaio 1977, contestandogli la pretesa, sostenuta dallo scrittore in un dibattito con alcuni giovani sul Corriere della Sera, che l’informazione non dovesse fare sconti alla spietatezza e alla conoscenza del male. Moro gli aveva chiesto perché mai anche il bene non dovesse fare notizia.

Fu ed è tuttora terribile contrapporre il sangue della scorta trucidata al diritto drammaticamente e ripetutamente rivendicato da Moro di sopravviverle. Condivido ancora, a tanti anni di distanza, la risposta che Bettino Craxi mi raccontò di avere dato ad Andreotti, che temeva di accendere d’indignazione anche le carceri se si fosse accettata l’idea di scambiare l’ostaggio con qualche detenuto, dopo tutti quei morti in via Fani. “Ebbene, manderemo i pompieri a spegnere le fiamme”, gli disse il leader socialista.

Non ha avuto torto invece Magris a  lamentare lo sgomento procuratogli da “una strettissima congiunta di Moro” dalla quale lui, dopo averle pubblicamente contestato i panettoni inviati per Natale ai detenuti che avevano ucciso il  padre, non so quanti anni dopo l’atroce morte, si sentì rispondere che “non ci aveva pensato” alla domanda se avesse avuto analoga idea per “le vedove dei poliziotti assassinati”. E ciò- ha aggiunto impietosamente Magris- “anche considerando che, per chi vive con la pensione vedovile di un agente di pubblica sicurezza, un panettone, oltre ad essere un segno di affetto, può essere anche un piccolo aiuto per il pranzo di Natale”.

Tuttavia non so se sia più triste sapere della pietà affogata in qualche panettone o sentirsela raccontare, magari dopo il sincero pentimento di chi l’aveva disgraziatamente offesa non pensandoci. E ha dovuto proprio in questi giorni ricredersi commentando le demenziali dichiarazioni della Balzerani, come ha fatto Agnese Moro dicendo. “Se qualcuno ha trasformato in mestiere una morte ingiusta siete voi, gente vile e meschina”. Gente che continua peraltro ad opporre una odiosa reticenza a tutti i buchi neri lasciati da memoriali e quant’altro prodotti in quarant’anni.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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