Generosamente paragonato, prima ancora di vincere le elezioni del 4 marzo, a Giulio Andreotti addirittura da Luciano Fontana, direttore pur sempre del Corriere della Sera, il grillino Luigi Di Maio si è messo sulla buona strada per essere scambiato per un nuovo Lenin, in salsa italiana, anzi campana. Non ne ha la calvizie, ma potrebbe venirgli con i pensieri e i traumi che già gli stanno forse procurando i suoi improvvisati estimatori di sinistra. Fra i quali il più clamoroso, sorprendente e quant’altro è apparso –ma solo apparso, come spiegherò- il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, spintosi nello studio televisivo di Giovanni Floris, a la 7, a preferirlo a Matteo Salvini: un paradosso uguale a quello cui ricorse qualche mese fa nello stesso studio, a costo di procurare un mezzo infarto al suo ex editore e amico Carlo De Benedetti, per preferire Silvio Berlusconi proprio a Di Maio, già allora candidato del movimento delle 5 stelle a Palazzo Chigi.
All’età di vegliardo che ha, e con la passione che ha conservato seguendo, commentando e cercando ancora di influenzare la politica, Scalfari può permettersi questi ed altri paradossi. Ma sarebbe disonesto prescindere dal carattere appunto paradossale delle sue sortite e inchiodarlo a croci che non gli spettano, come quella di un Di Maio destinato a diventare il capo di una sinistra moderna di governo: l’unica per la quale il fondatore di Repubblica sia disposto a votare e che il 4 marzo egli ha individuato nel Pd di Matteo Renzi.
Paradosso per paradosso, Scalfari ha dato per vero ciò che Di Maio cerca ora di “sembrare”: parola, questa, che lo stesso Scalfari ha adoperato parlando di come l’”intelligente” aspirante grillino sta muovendosi per guadagnarsi l’incarico di presidente del Consiglio e poi i voti in Parlamento che gli elettori non gli hanno concesso per ottenere la fiducia che ancora occorre ad un governo. Ma Di Maio si è mostrato, proprio dopo il paradosso di Scalfari, tanto convinto e adatto a diventare il capo della sinistra da scrivere una lettera a Repubblica richiamandosi alla lezione politica di Alcide De Gasperi. Che la sinistra cercò nel 1948 di cacciare a calci -parola di Palmiro Togliatti- dal governo. E fu il maestro o il superiore, come preferite, di quell’Andreotti al cui stile il direttore del Corriere della Sera ha paragonato quello dell’aspirante grillino a Palazzo Chigi.
Per niente paradossale mi è apparsa invece l’apertura ai grillini fatta in una intervista proprio al Corriere della Sera dopo il voto del 4 marzo dal vecchio e ultimo tesoriere dei comunisti: l’ormai ex senatore del Pd Ugo Sposetti. Che ha reclamato un processo al già dimissionario segretario del partito Renzi -ora davvero dimissionario, con un reggente riconosciuto nella persona del vice segretario Maurizio Martina- dicendogliene di tutti i colori.
Quando l’intervistatore ha ricordato a Sposetti come i grillini siano quelli che hanno fatto di tutto, e probabilmente riprenderanno a fare nelle nuove Camere, per togliergli o tagliargli il vitalizio di ex parlamentare, da lui difeso con argomenti neppure campati in aria, l’ex senatore non ha fatto una piega. “Quella -ha detto- è la loro battaglia politica, che io non condivido. Ma fanno battaglie politiche loro, non personali”, come evidentemente Sposetti ritiene che siano state quelle condotte da Renzi e dai suoi amici inseguendo su quel terreno i grillini.
Anche di Lenin, e poi di Stalin, si diceva così a sinistra: che facessero battaglie lodevolmente o comprensibilmente politiche, a prescindere dai metodi e dagli effetti.