A 94 anni quasi suonati, visto che li compirà il 6 aprile, Eugenio Scalfari –lo dico con ammirazione, non con dileggio, credetemi- ha allungato lo sguardo non sulla legislatura che sta per uscire dalle urne, la diciottesima, ma su quella ancora successiva, la diciannovesima, prevedendone ottimisticamente l’inizio nel 2023, cioè alla scadenza ordinaria, senza crisi di governo tali da anticiparne i tempi. Del resto, come ha scritto nell’abituale incontro domenicale con i lettori della sua Repubblica di carta, e nelle dimensioni ormai filosofiche da lui assunte, Scalfari è convinto che prima o poi scomparirà anche il Tempo: non inteso certamente come la ormai modesta testata giornalistica romana ma come la sequenza di tutte le cose, “il vero creatore –secondo lui- dell’Universo”.
I temi che Scalfari ha assegnato alla legislatura del 2023 sono, nell’ordine da lui stesso indicato: il clima, la tecnologia, la globalità, le integrazioni, l’entropia, la crescita vertiginosa della popolazione africana, la prevalenza demografica della gioventù sulla vecchiaia, i diritti delle donne, la riduzione della profondità dei mari e la loro estensione.
Certo, non è molto confortevole per le donne sentirsi dire che i loro diritti possono attendere almeno sino al 2023, con tutto quello che sta loro accadendo da qualche anno, ammazzate in modo spietato da uomini che non intendono rinunciare a possederle. In compenso, è confortevole pensare che la prevalenza demografica dei giovani fra cinque anni potrà finalmente risolvere, o cominciare a risolvere, il problema delle pensioni. Che ora terrorizza sia chi teme di non poterle mai maturare sia chi le percepisce ma è ogni tanto minacciato di perderle, o di vedersele ridurre drasticamente, prima che l’interessato faccia in tempo- maledetto tempo- a morire.
Per le scadenze più brevi, più a portata di mano, anche a costo di violare la consegna del silenzio imposta dalla fine della campagna elettorale e dalle operazioni di voto in corso, Scalfari ha espresso la fiducia che la sinistra di governo possa uscire dalle urne il meglio o, come preferite, il meno peggio possibile. In particolare, egli ha mostrato di augurarsi che “il partito di Gentiloni”, come lui chiama il Pd, possa cavarsela con la sua coalizione pur essendo destinato a prendere meno voti del movimento grillino e del “patto Berlusconi-Salvini”.
In tal caso, con Gentiloni cioè in grado di succedere a se stesso a Palazzo Chigi, pur con un governo rinnovato nelle componenti politiche e negli uomini, ma non al punto da fare a meno di Marco Minniti al Viminale, dove Scalfari ha preso l’abitudine di andarlo a trovare, più frequentemente forse di quanto il Papa lo inviti in Vaticano o lo chiami al telefono, il fondatore di Repubblica ritiene che Matteo Renzi possa o debba continuare a guidare il Pd come segretario “con piena legittimità”, e autorevolezza pure all’estero.
Ma tutto ciò anche ad un’altra condizione: che Renzi si affretti nelle prossime settimane a chiamare alla presidenza del partito Walter Veltroni. Il quale lo fondò, sia pure con altri, undici anni fa guidandolo per troppo poco tempo, assediato com’era dalle correnti e, in particolare, dall’avversario o concorrente di sempre. Che Scalfari non ha nominato ma è notoriamente Massimo D’Alema, uscito infine dal Pd l’anno scorso con Pier Luigi Bersani per improvvisare una sinistra radicale al polso della quale è stato messo, come braccialetto di riconoscimento, il nome di un rivoluzionario sfuggito per troppo tempo ai radar della politica: Pietro Grasso, già magistrato e presidente uscente, e perciò terminale, del Senato della Repubblica.