Ramanzina di Travaglio a Di Maio, cui dà quasi del cretino politicamente

            Senza voler togliere nulla allo scontro in corso nel centrodestra fra il leader incoronato dagli elettori Matteo Salvini e il renitente alla leva Silvio Berlusconi, che non vuole farsi arruolare dal  giovane e barbuto segretario leghista, trovandolo forse troppo ceghevariano per i suoi gusti, vi segnalo l’insofferenza del pur solidale Fatto Quotidiano di Marco Travaglio verso il capo dei grillini Luigi Di Maio. Che sembra anche lui renitente, ma ai consigli del giornale che evidentemente è convinto di averlo aiutato nelle elezioni, e vorrebbe ora dettargli la linea. Essa sarebbe quella di lasciar perdere la Lega, di favorirne magari solo l’arrivo al vertice di una delle Camere, giusto per fare dispetto a Berlusconi, ma di  aprire invece un negoziato di governo col Pd, non foss’altro per sottrarlo alla corte dell’uomo di Arcore. Il cui missionario Gianni Letta si muove come una trottola dietro e sotto le quinte per sondare le divisioni, gli umori e quant’altro  dei piddini che possano servire al centrodestra per neutralizzare il troppo ingombrante leader leghista.

            Travaglio ha titolato  il suo editoriale-ramanzina a Di Maio “opposti cretinismi”, che fanno rima con gli “opposti estremismi” lamentati dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat a proposito del terrorismo negli anni Sessanta, quando il leader socialdemocratico cercava di mettere sullo stesso piano l’eversione di destra e quella di sinistra.

            Dei cretinismi opposti che hanno fatto saltare la mosca al naso del direttore del Fatto Quotidiano, uno è quello di Pier Luigi Bersani, che cinque anni fa reclamava da segretario del Pd e presidente pre-incaricato di formare il governo un aiuto praticamente incondizionato dei grillini, che fecero bene a rifiutarglielo proprio perché incondizionato: talmente incondizionato che Bersani rifiutò il loro pur ottimo candidato al Quirinale Stefano Rodotà.

            A dire il vero, proprio sul Fatto, e contemporaneamente col rimprovero di Travaglio, l’ex segretario del Pd ha appena rivelato di essere stato talmente disposto ad aprire una trattativa di governo col movimento delle 5 stelle da avere chiesto inutilmente nel 2013 un incontro diretto con Grillo, in qualsiasi posto il comico avesse voluto riceverlo, anche a casa sua, ma di non avere ricevuto alcuna risposta, equivalente a un rifiuto.

            L’altro “cretinismo”, uguale e contrario, sarebbe ora quello di Di Maio, che per trattare col Pd, e coglierne a vantaggio delle 5 stelle lo stato di crisi, dovrebbe smetterla di fingere di essere disposto a trattare, e cominciare a trattare davvero. Ciò comporterebbe la rinuncia a cantare una vittoria elettorale che è stata solo relativa, in verità vantata anche dal giornale di Travaglio già la notte fra il 4 e il 5 marzo, quando i risultati non erano ancora definitivi, e la chiara disponibilità a negoziare modifiche al programma e alla squadra di governo prematuramente definiti prima delle elezioni da Di Maio in persona. Ma quel programma e quella squadra di governo furono esaltati durante la campagna elettorale dal Fatto Quotidiano come utili propellenti.

            Di coerenza, francamente, se ne coglie quindi poca nella ramanzina travagliesca. Che tradisce piuttosto la paura sia di un rapporto privilegiato fra il Pd anche post-renziano e Berlusconi, pur liquidato a parole come una manna per i grillini perché foriero di una loro prossima e completa vittoria, o di un accordo governativo, alla fine, fra grillini e leghisti. Che condannerebbe entrambi a dimostrare rapidamente la rovinosa, incolmabile sproporzione fra la capacità di protestare e di promettere e quella di risolvere davvero i problemi del Paese senza sfasciare quel poco che n’è rimasto.   

Quel giovedì 16 marzo 1978 tra via Fani, Montecitorio e Palazzo Chigi senza più Moro

La giornata di giovedì 16 marzo 1978 comincia con un contrattempo. La mia linea telefonica è bloccata. Alzo la cornetta e non avverto alcun segnale. Diavolo di un uomo, il mio amico Nicola Lettieri deve avere appoggiato male il suo ricevitore ieri sera, dopo avermi parlato, e mi ha isolato. Non è epoca di telefonini. Mi tocca rassegnarmi ad aspettare che anche Nicola avverta il bisogno di chiamare qualcuno e ripristini così la mia linea.

L’amico Lettieri è il sottosegretario di Francesco Cossiga appena confermato al Ministero dell’Interno nel quarto governo di Giulio Andreotti, formato sabato scorso, 11 marzo, dopo quasi un mese di crisi. Tanto è servito ad Aldo Moro, presidente della Dc, a convincere Enrico Berlinguer, segretario del Pci, a rinunciare al superamento del governo monocolore democristiano sostenuto dall’estate del 1976 con l’astensione dei comunisti e tradottosi in un loro logoramento politico.

Superare il monocolore significava fare entrare qualche indipendente di sinistra eletto nelle liste del Pci. Così voleva Berlinguer.  Non solo Andreotti ma anche il segretario della Dc Benigno Zaccagnini erano tentati dall’intesa se fosse dipeso solo da loro, e non avessero invece incontrato le resistenze di Moro, preoccupato soprattutto per la lettura che avrebbero potuto dare  della novità gli alleati americani. Che già non gli perdonavano di avere portato il Pci sulla soglia della maggioranza, e anche oltre ai loro occhi, con l’astensione o la “non sfiducia”.

Pazientemente, nel suo stile, pur rendendosi conto delle difficoltà espostegli da Berlinguer direttamente, in un incontro riservato svoltosi nell’abitazione privata del portavoce del segretario del Pci con la mediazione del consigliere parlamentare Tullio Ancora, curiosamente accomunato al presidente della Dc da un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte, Moro ha convinto il leader comunista a compiere un passo avanti ma più corto di quanto volesse. Doveva bastargli un programma regolarmente e minuziosamente negoziato, più vincolante di quello precedente, tale da permettere al Pci di accordare al governo la fiducia. E ciò almeno sino alla scadenza dell’anno, quando peraltro scadrà il mandato di Giovanni Leone al Quirinale e lo stesso Moro prevedibilmente gli succederà. Non ci sono al momento candidati in grado di tenergli testa.

Reduce da una chiacchierata proprio con Moro, suo amico e capocorrente, Nicola mi ha confidato a tarda sera di ieri  di averlo trovato turbato e persino “fuori della grazia di Dio”. Turbato dalle insistenze con le quali il suo caposcorta da tempo lo avverte di movimenti sospetti attorno a lui, tanto da indurlo a reclamare e ottenere una maggiore sorveglianza del suo ufficio privato, in via Savoia. Fuori dalla grazia di Dio, per avere appena saputo di una levata di scudi che Berlinguer in persona ha deciso di fare in Parlamento durante il dibattito sulla fiducia al nuovo governo per lamentarsi della sua composizione.

D’altronde già il vice capogruppo del Pci alla Camera, Fernando Di Giulio, ha avvertito lunedì il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Evangelisti, suo abituale interlocutore, di non dare più per scontato il voto di fiducia del suo partito.

Moro, secondo quanto riferitomi da Lettieri, teme addirittura la riapertura della crisi di governo e lo scivolamento verso le elezioni anticipate, a meno di due anni da quelle del 1976, anch’esse anticipate. A scongiurarle non si può neppure reclamare l’impedimento allo scioglimento delle Camere da parte del presidente della Repubblica per il cosiddetto semestre bianco, equivalente alla parte finale del suo mandato, perché quel periodo comincerà solo a fine giugno.

Per quale motivo Berlinguer sia tentato di riaprire la crisi Moro l’ha saputo per le solite vie di comunicazione fra loro: la conferma dei ministri democristiani dell’Industria Carlo Donat-Cattin e delle Partecipazioni Statali Antonio Bisaglia, particolarmente esposti all’interno della Dc nella contestazione della linea di collaborazione parlamentare con i comunisti, quale è diventata la cosiddetta “solidarietà nazionale”, variante del “compromesso storico” proposto dallo stesso Berlinguer alla Dc nella convinzione, suggeritagli dalla tragica fine del governo di sinistra in Cile, che non sia possibile salvaguardare la democrazia senza l’accordo fra i partiti più rappresentativi.

Della conferma di Donat-Cattin e di Bisaglia Moro –mi ha raccontato Lettieri- riconosce di essere responsabile, avendola sostenuta nella riunione conclusiva della delegazione democristiana incaricata di seguire la crisi, ma senza che Zaccagnini e Andreotti gli avessero detto di averne garantito la sostituzione al Pci. Se glielo avessero rivelato, egli avrebbe quanto meno tentato di spiegare personalmente al segretario del Pci l’opportunità di quelle conferme, coerenti –secondo lui- col gioco dei pesi e contrappesi che aveva prodotto la scelta di Andreotti nel 1976 per la guida del primo governo della stagione della “solidarietà nazionale”.

Esco quindi da casa la mattina del 16 marzo 1978 con la curiosità professionale di assistere alla Camera ad una partita politica non più scontata, come di solito si ritiene la presentazione di un governo nato da una lunga trattativa. Vorrei anche informare della situazione Indro Montanelli, direttore del mio giornale, per allertarlo, ma ho il telefono inservibile.

Al solito, carico in macchina anche mia figlia, di 13 anni, per accompagnarla a scuola, l’Istituto Gesù e Maria, in via Flaminia vecchia. E seguo il percorso solito di viale Cortina d’Ampezzo in direzione di Corso Francia. Ma m’imbatto subito in una fila che mi fa temere di arrivare con troppo ritardo alla scuola, per cui faccio inversione di marcia e scelgo il percorso –solito in queste circostanze- di via di Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via della Camilluccia, Vigna Stelluti, Corso Francia.

Passo, in via di Forte Trionfale, davanti alla palazzina dove abita Moro e noto l’assenza della scorta, per cui deduco che egli sia già uscito per andare alla Camera, dove il governo sta per presentarsi chiedendo la fiducia. Moro sarà smanioso di verificare di persona la situazione descrittami ieri sera da Lettieri. Corre voce d’altronde anche di dimissioni di Benigno Zaccagnini per ragioni di stanchezza che potrebbe sottintendere ben altro, visto quello che ho saputo del malumore di Moro.

Imboccata la via Trionfale, non riesco a prendere via Fani perché bloccata da una grossa moto appoggiata sul cavalletto. Vengo dirottato verso Largo Igea da un uomo in divisa con tanto di paletta in mano. Mancano pochi minuti alle ore 9. Poi saprò che dai cinque agli otto minuti dopo in quella strada, all’incrocio con via Stresa, Moro sarebbe stato rapito e la sua scorta sterminata. E saprò anche – per essere stato interrogato sulla circostanza dalla polizia giudiziaria- che in quella zona non risultavano presenti quella mattina pattuglie di Polizia o di altri corpi militari in motocicletta, per cui a dirottarmi verso Largo Igea debbono essere stati altri brigatisti rossi, come quelli dell’assalto a Moro e alla scorta.

Percorro via della Camilluccia con un traffico non proprio scorrevole ma non sospetto. Lasciata mia figlia a scuola con un po’ di ritardo e raggiunto Montecitorio verso le 9 e mezza, incrocio sul portone del Palazzo  l’amico Evangelisti che ne esce  correndo verso Palazzo Chigi e gridandomi: “Hanno rapito Moro”.  Rimango senza parola e ripenso subito naturalmente alla telefonata di Lettieri.

Corro anch’io verso Palazzo Chigi inseguendo inutilmente Evangelisti, che vi arriva prima di me e scompare. Volteggiano intanto sul centro elicotteri della Polizia e dei Carabinieri. Nel cortile della Presidenza del Consiglio cominciano ad affluire le auto che portano i leader dei partiti convocati con urgenza da Andreotti per le consultazioni sulla situazione di emergenza. Esse si concludono concordando, d’intesa telefonica con i presidenti delle Camere, Pietro Ingrao a Montecitorio e Amintore Fanfani al Senato, tempi strettissimi per la fiducia necessaria al governo per entrare nella pienezza dei suoi poteri.

Tutte le riserve dei comunisti, reali o ingigantite che fossero, rientrano in un baleno. Nella stessa giornata il governo ottiene la fiducia a Montecitorio con 545 sì, 30 no e 3 astenuti, al Senato con 267 sì e 5 no.

Nel cosiddetto transatlantico della Camera, il salone cioè prospiciente l’aula, irrompe a metà mattina un furioso Ugo La Malfa per reclamare il ripristino della pena di morte contro i terroristi. E pensare che solo sette anni fa l’ho visto e sentito parlare in quello stesso posto contro la candidatura di Aldo Moro al Quirinale, peraltro neppure espressa dalla Dc, perché troppo condizionata, secondo il leader del Pri, dall’appoggio che l’allora ministro degli Esteri avrebbe potuto ottenere dall’opposizione comunista. Poi su Moro, senza aspettarne in verità il sequestro, il leader repubblicano si è ricreduto diventandone tra la fine del 1974 e le prime settimane del 1975  vice presidente del Consiglio, in un governo bicolore Dc-Pri. E convincendosi della opportunità e insieme inevitabilità di un accordo temporaneo col Pci, dopo il disimpegno dal centrosinistra deciso dal Psi guidato da Francesco De Martino, proiettato verso equilibri “più avanzati” che non avrebbero potuto prescindere dalla partecipazione o dall’appoggio dei comunisti.

E’ proprio a Montecitorio che in tarda serata, dopo avere scritto il mio articolo per Il Giornale, incrocio il sottosegretario Lettieri, reduce da una delle prime, convulse e purtroppo inutili riunioni al Viminale su come gestire la tragedia abbattutasi sulla Repubblica, e non solo sul nostro comune amico Moro, chiuso chissà dove, strappato con tanta violenza ai suoi, come lui considerava anche gli uomini della scorta, trucidati nell’assalto. Ci guardiamo in faccia senza avere lì per lì neppure la forza di parlarci. Poi Nicola mi  afferra il braccio e dice, con parole e un tono che non dimenticherò mai: “Il governo è salvo, Moro non lo so”.

No, Moro non si salverà. Ma neppure il governo da lui faticosamente aiutato a nascere, o a non morire, come temeva ieri sera, durerà a lungo. Si dimetterà il 31 gennaio del 1979 per il ritiro della fiducia di un Pci stremato anch’esso dalla tragedia di Moro, e non più in grado di sostenere scelte imminenti o prossime, sul piano internazionale, come il rientro della lira nel sistema monetario europeo e il riarmo missilistico della Nato. Che pure è stata considerata da Berlinguer durante la breve stagione della “solidarietà nazionale”, in una storica intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, un ombrello protettivo anche dell’autonomia del suo Pci da Mosca.

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