Di Maio e Salvini in marcia verso le presidenze delle Anticamere

              Quei due -Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in ordine non solo alfabetico ma anche elettorale, per la consistenza dei loro partiti dopo le elezioni politiche del 4 marzo scorso- sono molto meno sprovveduti o più furbi, come preferite, delle sensazioni generalmente avvertite dagli osservatori durante la campagna elettorale.

            Candidati entrambi a Palazzo Chigi, l’uno per i grillini dopo primarie digitali e l’altro per il sorpasso eseguito, all’interno della coalizione di centrodestra, sul partito dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che l’ha presa peggio di una condanna giudiziaria, sia Di Maio che Salvini hanno capito che più di un incarico, anzi di un pre-incarico, non potranno ottenere dal capo dello Stato dopo le consultazioni di rito per la formazione di un nuovo governo. Sarebbero incarichi o pre-incarichi con la rinuncia sostanzialmente incorporata.

            Nessuno dei due ha in tasca i numeri necessari per ottenere la fiducia delle due Camere perché l’unico partito che li potrebbe aiutare è il Pd affidato alla reggenza del vice segretario Maurizio Martina dopo le dimissioni di Matteo Renzi. E’ un partito talmente frastornato dalla sconfitta, e dilaniato da ambizioni sempre più sproporzionate rispetto allo spazio disponibile, che non è materialmente in grado di compiere una scelta senza spaccarsi. E una spaccatura vanificherebbe anche i suoi numeri parlamentari.

            In una situazione del genere, dovendo mettere nel conto una soluzione di governo all’insegna della provvisorietà e insieme dell’emergenza, su proposta e iniziativa del presidente della Repubblica, per gestire la cosiddetta ordinaria amministrazione, rispettare gli adempimenti istituzionali e internazionali e predisporre una nuova legge elettorale, Di Maio e Salvini hanno cominciato ad accarezzare l’idea di giocarsi intanto in prima persona la prima e forse unica partita che hanno davvero a disposizione: l’elezione dei presidenti delle Camere. O delle Anticamere, come potrebbero diventare per entrambi se la partita del governo dovesse riaprirsi dopo le consultazioni, o tra le finestre delle consultazioni al Quirinale. Dove peraltro entrambi potrebbero giocare sia come figure istituzionali sia come leader politici. Lo faceva comodamente a suo tempo, nella cosiddetta prima Repubblica, il presidente del Senato Amintore Fanfani.

            Già vice presidente della Camera uscente, Di Maio dovrebbe solo cambiare stanza nel palazzo di Montecitorio, risolvendo peraltro con la propria elezione a presidente i problemi crescenti creati fra i grillini dalle candidature comparse sui giornali, ciascuna delle quali ha provocato mal di pancia fra gli eletti e nella base del movimento delle 5 stelle.

            Salvini -al quale Berlusconi nei giorni scorsi aveva fatto peraltro l’imprudenza di offrire la seconda carica dello Stato pensando di poterne neutralizzare l’aspirazione a Palazzo Chigi-  si è trovata spianata la strada del vertice di Palazzo Madama dal veto lanciato da Di Maio in persona contro i due esponenti del centrodestra meglio piazzati sino a ieri nella corsa. Che sono il capogruppo uscente di Forza Italia Paolo Romani e il vice presidente uscente dello stesso Senato Roberto Calderoli, leghista ma non di strettissima osservanza salviniana.

         Ebbene, l’uno ha per Di Maio il torto di avere subìto una condanna per peculato, sia pure di modesta entità, procuratasi con un telefonino di servizio lasciato usare dalla figlia quando lui faceva l’assessore comunale a Monza. L’altro ha il torto di essere appeso ad una pronuncia della Corte Costituzionale per sapere se potrà evitare o dovrà subire un processo addirittura per odio razziale, avendo insultato a suo tempo una ministra italiana di colore.

         Il veto grillino potrebbe anche apparire una mitragliata contro due uccellini. Ma ogni pretesto, si sa,  è buono in politica per raggiungere l’obbiettivo.

 

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