Da modesto e anziano osservatore politico vorrei cortesemente dissentire dal forte giudizio negativo, espresso forse sul piano più sociologico che altro, dall’autorevole Alberto Abruzzese sul discorso col quale, da presidente anziano e perciò provvisorio del Senato, Giorgio Napolitano ha inaugurato venerdì scorso la diciottesima legislatura. Un discorso “invadente e scorretto”, lo ha definito Abruzzese facendo involontariamente da sponda -credo- all’accusa rivolta al presidente emerito della Repubblica da Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, di avere scoperto con ritardo la dirompente realtà dei grillini. Che Napolitano, quando era al Quirinale, si rifiutò di riconoscere come un “boom”, dicendo di ricordare solo quello economico degli anni Cinquanta e Sessanta, non altro.
Mi è sembrato di capire che, memore della comune esperienza comunista, Abruzzese non abbia ancora perdonato a Napolitano e agli altri dirigenti del Pci neppure le distanze, chiamiamole così, prese dalla contestazione giovanile del 1968. Nella cui valutazione riuscì ad essere più aperto nella Dc Aldo Moro, che pure ne era stato in qualche modo vittima avendo appena perduto nella primavera di quell’anno la presidenza del Consiglio con la crisi post-elettorale di governo. Una crisi paradossalmente gestita, con la complicità di Giuseppe Saragat al Quirinale, dai “dorotei” democristiani accortisi all’improvviso della necessità di spostare più a sinistra gli equilibri politici. Sarebbe infatti nato da quella crisi il centrosinistra “più incisivo e coraggioso”, non più delimitato a sinistra, come lo definì il nuovo presidente del Consiglio Mariano Rumor. Che dalla segreteria della Dc sino a pochi mesi prima aveva trattenuto Moro dalla tentazione di concedere agli alleati socialisti, per esempio, i fondi necessari alle pensioni sociali. O un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti, dopo le deviazioni emerse nell’estate del 1964, quando Pietro Nenni aveva avvertito nei suoi diari “rumori di sciabole” su una crisi di governo provocata sul terreno dell’istruzione dai settori più moderati dello scudo crociato. Avvenimenti lontani, d’accordo, ma pur sempre utili a capire quanto difficile e tormentato sia sempre stato il percorso della sinistra in Italia.
Secondo Abruzzese, o quanto dal suo articolo sul Dubbio mi è parso di capire, “l’incapacità di pensiero estremista” da parte di Napolitano e degli altri dirigenti del Pci di allora finì per “accendere la miccia di nuovi estremismi fuori controllo”, sino agli sbocchi terroristici degli anni Settanta e Ottanta. La stessa incapacità avrebbe avuto l’anziano Napolitano cinque anni fa valutando il fenomeno grillino e costituendo le premesse di una sua ulteriore crescita, scoprendone in ritardo tutta la carica protestataria con i risultati delle elezioni del 4 marzo scorso. E spingendosi tanto avanti, o indietro, indifferentemente, da farsi scappare nell’aula del Senato quel già ricordato intervento “invadente e scorretto”. Di cui fa parte anche quel Pd “respinto all’opposizione”, ha detto Napolitano pensando, con spirito appunto invadente, a quei settori dello stesso Pd che sarebbero disposti ad offrire ai grillini un’alternativa alla tentazione di un rapporto privilegiato con la Lega di Matteo Salvini e, più in generale, con il centrodestra sperimentato nell’elezione dei nuovi presidenti delle Camere.
Diversamente da Abruzzese, e ancor più da Travaglio naturalmente, non ritengo che Napolitano avesse troppo snobbato il fenomeno grillino alla sua esplosione, nelle elezioni del 2013. Pur negando ai pentastellati il famoso boom, forse per un eccesso di civetteria intellettuale o per una reazione troppo orgogliosa a persone che già avevano preso a dileggiarlo, l’allora capo dello Stato individuò perfettamente le ragioni della protesta che aveva alimentato elettoralmente il movimento fondato dal comico genovese. Penso, fra l’altro, al rovesciamento sui partiti di governo del mancato funzionamento del sistema istituzionale, ormai obsoleto alla luce dei cambiamenti intervenuti dopo l’approvazione della Costituzione, alla fine del 1947.
Da politico consumato, l’allora presidente della Repubblica avvertì che la bocciatura di una intera classe dirigente e parlamentare come “casta”, chiusa nei suoi “privilegi”, nasceva da quella specie di aterosclerosi istituzionale che si era creata col vecchio e superatissimo sistema bicamerale curiosamente chiamato perfetto. Perfetto poi in che cosa se non nell’allungamento dei tempi necessari ad un’attività legislativa al passo con i tempi e ad un rapporto efficiente tra Parlamento e governo, tra potere legislativo ed esecutivo? Per non parlare di tutte le altre magagne accumulatesi negli anni, comprese quelle riguardanti la giustizia e, più in particolare, i rapporti tra politica e magistratura.
Piuttosto che assecondare, enfatizzandola, la protesta fine a stessa e accreditare una nuova e un po’ troppo improvvisata classe dirigente, che scambiava il Parlamento per il bivacco di memoria fascista o per una scatola di tonno da aprire, e aspirava ad uscire dall’euro con un referendum, Napolitano rilanciò con forza il tema da lui sostenuto da tempo di una riforma istituzionale. E impedì coerentemente all’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, cui non aveva potuto negare dopo le elezioni un incarico per la formazione del nuovo governo, anzi un pre-incarico, valutando giustamente con grande prudenza la situazione, di presentarsi alle Camere con una squadra ministeriale baldanzosamente definita “di minoranza e di combattimento”, forte di una maggioranza a Montecitorio, grazie ad un “premio” elettorale peraltro destinato ad una bocciatura della Corte Costituzionale, e appesa al Senato agli umori imprevedibili dei grillini. E tutto questo solo in odio, preconcetto e assoluto, di Silvio Berlusconi, allora non condannato ancora per frode fiscale con una sentenza della Cassazione emessa rincorrendo con una sezione feriale i termini della prescrizione.
Rieletto al Quirinale, unico tra tutti i presidenti della Repubblica, dopo la bocciatura di entrambi i candidati messi in pista da Bersani per la sua successione, prima Franco Marini e poi Romano Prodi, un Napolitano ancora più franco e nervoso del solito scudisciò quasi letteralmente le Camere reclamando una riforma istituzionale finalmente radicale, e minacciando le dimissioni se non ne avesse visto l’avvio. Al quale provvidero il governo delle cosiddette larghe intese presieduto da Enrico Letta e poi quello di Matteo Renzi, dalle intese meno larghe ma dalla guida più ferma, che forse non guastava al punto in cui erano arrivate le cose.
Se la riforma targata Renzi, che incideva finalmente sul bicameralismo paritario, variante del perfetto, ed era completata da una riforma elettorale davvero maggioritaria, col ballottaggio finale e decisivo che garantisse un sicuro vincitore, fece nelle urne referendarie del 4 dicembre del 2016 la fine miserrima a tutti nota, la colpa non fu certo di Napolitano. La colpa fu dei partiti che non seppero stare insieme dall’inizio alla fine del percorso riformatore; della personalizzazione del referendum incautamente provocata da Renzi, e riconosciuta troppo tardi per porvi rimedio; della disinvoltura con la quale Berlusconi a destra e Massimo D’Alema a sinistra si ritrovarono nel fronte del no insieme con i grillini, non certo interessati ad un cambiamento delle cose che svuotasse le loro proteste, e infine degli elettori che caddero nelle trappole dei pifferai.
Sì, lo so. Ho scritto una cosa generalmente considerata sacrilega. C’è gente convinta che gli elettori abbiano sempre ragione, come i clienti ai banchi del mercato. Ma anche gli elettori possono sbagliare scartando il buono per inseguire il meglio. Fu semplicemente deriso chi sostenne in quella sciagurata campagna referendaria che una riforma difettosa potesse essere poi migliorata, e fosse quindi preferibile ad una riforma mancata.
Gli effetti di quella scelta referendaria si sono riversati nelle elezioni politiche del 4 marzo, nei suoi risultati e nelle incerte, assai incerte prospettive delle consultazioni che il capo dello Stato condurrà dalla settimana prossima per la formazione di un nuovo governo: il primo e spero non ultimo di una legislatura brevissima.
Pubblicato su Il Dubbio