Una volta, parlandone con Aldo Moro, che ne aveva un rispetto quasi sacrale, tanto da difendere apertamente come ministro degli Esteri un capo che era finito nei guai, notai che ad ogni mio accenno ai “Servizi”, come ci eravamo ormai abituati anche noi giornalisti a chiamarli quasi per ridurne l’aspetto inquietante e ingentirli, lui ci aggiungeva l’aggettivo che avevo omesso: segreti. Egli credeva così tanto a quell’aggettivo, ed evidentemente alle sue implicazioni, che da presidente del Consiglio al suo vice Pietro Nenni, convinto
che si potesse e dovesse fare un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti, appunto, di fronte alle polemiche su un colpo di Stato che sarebbe stato tramato nell’estate del 1964, durante la crisi del suo primo governo di centro-sinistra, gli spiegò pacatamente che i socialisti non potevano “scivolare su un ossimoro”. A un Nenni scettico egli spiegò che l’ossimoro consisteva nel fare un’inchiesta su qualcosa che è istituzionalmente segreto.
Quando da un’inchiesta parlamentare, in aggiunta peraltro al processo che stava maturando su quei fatti del 1964 raccontati da Lino Iannuzzi sull’Espresso di Eugenio Scalfari, si decise di scendere ad un’inchiesta amministrativa, Moro trasecolò davanti al ministro socialdemocratico della Difesa Roberto Tremelloni che parlava delle spese dei servizi segreti su cui rafforzare il controllo della Corte dei Conti.
Per mettere sotto inchiesta parlamentare i servizi segreti i democristiani e i socialisti dovettero mandare via Moro da Palazzo Chigi, nell’estate del 1968, l’anno anche della contestazione giovanile, e inventarsi un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra, sempre col trattino. E Moro, finito in minoranza nella sua Dc, dopo averla guidata da segretario fra il 1959 e il 1963, per ritorsione -secondo i suoi avversari- o per lungimiranza -secondo i suoi estimatori- si inventò la cosiddetta e famosa “strategia dell’attenzione” verso i comunisti. Che erano destinati all’opposizione anche della nuova edizione del centro-sinistra, pur depurata della formula originaria della “delimitazione della maggioranza”.
Mentre Moro parlava tuttavia di “strategia dell’attenzione” nasceva in qualche anfratto dei servizi segreti la “strategia della tensione”. Che era supportata da ambienti internazionali non esclusivamente americani o israeliani, che avevano colorato a lungo le uniche correnti di quei servizi, prima che subentrasse con Enrico Mattei alla presidenza dell’Eni anche una corrente un po’ filo-araba.
La “strategia della tensione” doveva servire, fra attentati, depistaggi e altro, a fermare quella che veniva considerata una corsa a sinistra degli equilibri politici italiani, scomoda anche ai sovietici per i cambiamenti che avrebbe potuto provocare nel Pci e per l’allontanamento dal mondo “bipolare” uscito dai trattati di Yalta conclusivi della seconda guerra mondiale.
Lo stesso Moro in quelle condizioni finì per rimetterci la vita con un sequestro che nelle motivazioni delle brigate rosse doveva servire a salvare l’anima del Pci interrompendone l’imborghesimento, come lo chiamavano i terroristi convinti che la Resistenza con la fine della seconda guerra mondiale fosse stata solo un’avventura interrotta, o deviata.
Eppure -pensate un po’- l’esordio dei servizi segreti nelle incursioni nelle vicende politiche della Repubblica era avvenuto agli inizi degli anni Sessanta per spostare gli equilibri dal centro, dove li aveva fermamente collocati Alcide De Gasperi, a sinistra. Per quanto insultati da Ugo La Malfa come “miserabbbili”, con tre b di accento o tono siciliano, molti videro o avvertirono soldi dei servizi segreti per piegare le ultime resistenze di Randolfo Pacciardi al centro-sinistra e far vincere un decisivo congresso del Partito Repubblicano ai sostenitori della svolta in direzione dei socialisti.
Erano dei servizi segreti i fascicoli a carico di tutti gli oppositori reali o solo potenziali a quella svolta: fascicoli che si moltiplicarono a tal punto da indurre ad un certo punto il governo a disporne la distruzione, compreso quello -per esempio- dedicato con pruriginosa attenzione ad una relazione extra-coniugale dell’ex presidente del Consiglio ed ex ministro democristiano dell’Interno Mario Scelba. Che si arrese alla svolta non per questo, cioè sotto ricatto, ma per la capacità che ebbe Moro di arrivarvi a tappe, con prudenza certosina.
Alla fine di una riunione della direzione democristiana dedicata proprio alla preparazione dell’intesa con i socialisti Moro lesse un documento da lui stesso predisposto annunciandone l’approvazione “con le consuete riserve dell’onorevole Scelba”. Che obbiettò di essere
invece favorevole al testo. Ma Moro lo pregò di non smentirlo perché quell’astensione gli serviva nel negoziato col Psi. Cui, a governo ormai formato e riuscito a sopravvivere alla prima crisi, quella appunto del 1964, propose la nomina a ministro di Scelba, che aveva rifiutato l’incarico di presidente del Consiglio fattagli dal capo dello Stato Antonio Segni per interrompere l’alleanza con i socialisti e tornare al centrismo, anche a costo di elezioni anticipate. Nenni non ne volle sapere e Moro, per ripararvi, promosse l’elezione di Scelba a presidente del Consiglio Nazionale della Dc.
Vennero poi i tempi, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica, di incursioni ancora più pesanti dei servizi segreti, o della loro parte “deviata”, nelle vicende politiche d’Italia. Se ne sta occupando un processo d’appello a Palermo sulla “trattativa”, riconosciuta da una sentenza di primo grado, fra pezzi dello Stato e la mafia finalizzata a farla recedere dalla stagione delle stragi.
Nacquero anche fra le pieghe dei servizi segreti i guai del mitico magistrato antimafia Giovanni Falcone. Che, già osteggiato da non pochi colleghi e dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, fra gli altri, che lo accusava pubblicamente di coprire nelle sue indagini i livelli cosiddetti politici di “Cosa nostra”, egli si trovò ad un certo punto a che fare con un pentito convinto di avere buone informazioni sul ruolo che uomini dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, se non lui direttamente, avrebbero avuto addirittura nelll’assassinio, nel 1980, del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale capo dello Stato.
Insospettito dalle contraddizioni del pentito, Falcone si fece consegnare dal direttore del penitenziario in cui era rinchiuso l’elenco delle persone che erano andate a parlargli negli ultimi tempi. E scoprì alcune visite rimaste, diciamo così, anonime, senza l’indicazione delle persone. Ciò avveniva quando queste appartenevano ai servizi segreti. Falcone avvertì puzza di bruciato e, anziché credere al pentito, lo incriminò per calunnia. Da allora la sua permanenza a Palermo si fece impossibile. Egli fu costretto a cambiare aria con l’aiuto
dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, di Andreotti a Palazzo Chigi e di Giuliano Vassalli e poi Claudio Martelli guardasigilli, trasferendosi a Roma come direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia. Ma non riuscì lo stesso a scampare alla morte con la strage di Capaci del 1992, cui seguì quella che costò la vita al collega e sodale Paolo Borsellino.
Mi chiederete a questo punto quale attualità possa avere questa rievocazione di fatti e uomini riconducibili ai servizi segreti in questo momento in cui altri sembrano essere i problemi sul tappeto del governo e della maggioranza: stato di emergenza virale appena prorogato mentre scoppiano polemiche sul confinamento disposto a marzo in tutta Italia, difformemente dalle indicazioni limitative del comitato tecnico-scientifico, crisi economica, utilizzo dei fondi europei per la ripresa, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, riforma del processo penale promessa in cambio della prescrizione breve ormai in vigore dall’inizio di quest’anno, riapertura delle scuole, riforma dello sport contestata al ministro del ramo dai compagni pentastellati di partito, rimpasto ministeriale negato a parole e perseguito dietro le quinte, nuova legge elettorale, referendum confermativo della riduzione di 345 seggi parlamentari e contemporanee elezioni regionali e amministrative d’autunno.
Purtroppo in questo groviglio di problemi si è inserito anche quello di una proroga degli incarichi ai vertici o piani alti dei servizi segreti, anche di quelli non rinnovabili per vecchie norme superate un po’ alla chetichella con un articolo inserito in uno dei decreti legge dettati dall’emergenza virale.
Sfuggita anche all’attenzione, a quanto sembra, del Quirinale fra la sorpresa di una parte della maggioranza -particolarmente il Pd, da cui sono giunte al governo richieste correttive, anzi soppressive, nel percorso parlamentare di quel decreto- questa storia ha procurato al presidente del Consiglio in persona un attacco molto circostanziato del quotidiano La Repubblica. Il cui specialista Carlo Bonini, quasi completando o stringendo una stretta critica verso Conte cominciata col recente cambiamento della proprietà del giornale, ha usato parole ed espressioni pesanti, curiosamente rimaste senza risposta: compresa la rappresentazione di un presidente del Consiglio che si fa consigliare in una materia così delicata e minata da un generale “disinvolto nella vita privata”. Che ha evidentemente un ruolo in “questa patita avvelenata -ha scritto Bonini- che divide il governo e ha il sentore fetido della cultura del ricatto”.
Non è francamente questo ciò di cui Conte aveva ed avrebbe bisogno in un passaggio già così difficile della sua esperienza a Palazzo Chigi, pur confortato da un indice di gradimento
personale abbastanza alto in tutti i sondaggi. Che purtroppo non bastano a risolvere i problemi di un presidente del Consiglio cui proprio, e sempre, su Repubblica il costituzionalista Michele Ainis ha appena rimproverato i troppi rinvii cui ricorre, sino a paragonarlo a “Fabio Massimo, il temporeggiatore”. Fu un “dittatore” romano che un po’ si illuse di poter sconfiggere Annibale temporeggiando, appunto.