I 50 anni delle Regioni festeggiati al Quirinale ma portati un pò male…

            Per quanto con i loro 50 anni di vita siano più giovani della Costituzione, che ne ha compiuto De Luca al Quirinale.jpeg72, e alcuni dei loro “governatori” sianoFontana al Quirinale.jpegarrivati al Quirinale a passo di carica, come Vincenzo De Luca, o con le giacche svolazzanti Emiliano al Quirinale.jpegsu maniche Zaia al Quirinale.jpege spalle, come i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, le regioni italiane si portano maluccio la loro età, diciamolo francamente. A farle invecchiare precocemente ha contributo la dura prova sopportata dal sistema sanitario, di loro competenza, nell’impatto con l’emergenza virale.

             Nella festa di compleanno politico allestita per loro sul Colle  il presidente della Repubblica ha  fornito anche un aiutino prezioso con la raccomandazione al governo di coinvolgere le regioni nella gestione degli ingenti fondi europei per la ripresa post-endemica varati nel recente vertice di Bruxelles, anche se deve essergli costata -credo-una grossa fatica sorvolare sul rischio che esse corrono, a causa della posizione assunta nella maggioranza dai grillini, di non poter attingere a quel prestito di 37 miliardi di euro già disponibili proprio per il potenziamento del sistema sanitario, diversamente dagli altri soldi destinati ad arrivare solo dall’anno prossimo.

            Se il capo dello Stato si fosse avventurato su questo terreno, magari limitandosi a raccomandare realismo al governo, avrebbe moltiplicato i guai del presidente del Consiglio. Il quale è convinto che l’attenzione a  questo problema sollevato con insistenza dal Pd e dai renziani nella maggioranza, e dai forzisti e radicali all’opposizione, sia  addirittura “morbosa”. L’ascolto gli costerebbe la crisi, visto che il Movimento 5 Stelle, diviso quasi  su tutto,  fa del suo no a quel prestito targato Mes, da meccanismo europeo di stabilità, una questione di bandiera: come il suo sì alla riduzione dei 345 seggi parlamentari alla prova del referendum confermativo del 20 settembre. Se, in assenza di un barlume di nuova legge elettorale reclamata nel momento di far passare la riforma in Parlamento, il Pd si disimpegnasse a tal punto da far mancare la ratifica, i grillini compirebbero forse anche il suicidio delle elezioni anticipate, a costo di ridursi davvero a fare “i gelatai” davanti al Parlamento nella nuova legislatura, come li sfotte ogni tanto il loro ex simpatizzante Antonio Di Pietro. Che essi hanno tenuto a distanza non fidandosene, nonostante i suoi buoni rapporti e una passata collaborazione con la buonanima di Roberto Casaleggio.

            Forse il capo dello Stato ha peccato di ottimismo leggendo in chiave positiva la riforma già subita dalle regioni nei loro cinquant’anni di vita col titolo quinto della Costituzione, riscritto in tutta fretta nel 2001 dal secondo governo di Giuliano Amato per inseguire i leghisti sulla strada del federalismo e trattenerli, peraltro inutilmente, dal ritorno nel centrodestra di Berlusconi, dopo la rottura di Umberto Bossi alla fine del 1994. Ne derivò un pasticcio, con un contenzioso infinito davanti alla Corte Costituzionale, riconosciuto dagli stessi autori -di centrosinistra- della riforma con un  intervento correttivo travolto però dall’antirenzismo che segnò il referendum del 2016: un’occasione davvero perduta, che aggravò anziché fermare l’invecchiamento precoce dell’istituto regionale, ancor prima della sopraggiunta epidemia virale.

 

 

 

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Il partito di Beppe Grillo ridotto ormai come la carcassa del suo fuoristrada

C’è solo l’imbarazzo della scelta se valutare più dannosi al Paese i danni procurati da Matteo Salvini al centrodestra, impedendogli -secondo l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro- di essere un vero e affidabile schieramento conservatore di stampo europeo, o quelli procurati al governo in carica dai grillini. Il cui caos interno è francamente ancora più visibile di quello leghista e mette sempre di più nell’angolo, nonostante il gradimento personale che gli riservano generalmente i sondaggi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Verso il professore pugliese alla sua seconda esperienza a Palazzo Chigi, proprio o sempre su Repubblica, quasi come controcanto a Ezio Mauro, va sempre più affievolendosi il giudizio una volta entusiastico del fondatore Eugenio Scalfari. Che domenica scorsa, per esempio, ha scritto di lui che “in queste settimane ha perso molto della sua efficacia” e “va avanti a tentoni”, pur essendo uscito con un buon risultato dal recente vertice europeo di Bruxelles. Salvini a tentoniDove si è assicurato, grazie alla tenuta del tandem Merkel-Macron, aiuti comunitari per la ripresa post-epidemica di 209 miliardi di euro, pur non disponibili immediatamente come il prestito di 37 miliardi per il potenziamento del servizio sanitario. Che è invece  contestato dai grillini e quindi bloccato lì, tra le cose da vedere e non toccare.

Che Matteo Salvini, “il capitano” della Lega, non goda più della buona salute politica o del vento delle elezioni europee dell’anno scorso e di quelle regionali immediatamente successive, che lo portarono a quasi il 35 per cento dei voti, è indubbio. Che fra i leghisti ci sia malumore e un po’ anche di paura, specie di fronte all’oggettivo pasticcio in cui si è ficcato il “governatore” lombardo Attilio Fontana con la storia dei camici prima venduti e poi offerti  alla regione, nei giorni peggiori dell’epidemia, dal cognato in società con sua moglie, è altrettanto indubbio. Che l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e tuttora responsabile del dipartimento estero della Lega, Giancarlo Giorgetti non abbia digerito per niente il sostanziale voltafaccia di Salvini, di fronte al no di Giorgia Meloni, sulla prospettiva di un governo di unità nazionale o emergenza presieduto da Mario Draghi, non è vero ma verissimo. Eppure mi sembra alquanto prematuro il mezzo funerale politico del leader della Lega celebrato dal già citato ex direttore di Repubblica in sintonia, una volta tanto, col Fatto Quotidiano, sul cui ring di prima pagina Salvini è diventato un pugile “suonato”.

Se non vogliamo credere ad un filosofo, ma anche politico, incontrovertibilmente di sinistra e per niente sprovveduto come Biagio De Giovanni, che sul Foglio ha accusato il Pd di avere ridato buone carte da giocare a Salvini unendosi a Matteo Renzi e ai grillini per l’autorizzazione a procedere contro di lui per i presunti sequestri di persona l’anno scorso a bordo della nave spagnola “Open Arms, soffermiamoci almeno sulla paura avvertita dal ministro pentastellato degli Esteri Luigi Di Maio. Che di fronte alla recrudescenza degli Di Maio e Salvini.jpegsbarchi di migranti in fuga, una volta approdati in Italia, anche dalla quarantena virale, ha inseguito Salvini e costretto Conte a fare altrettanto promettendo una tolleranza zero per gli “ingressi irregolari”. Il “capitano” leghista insomma continua a far paura, eccome. Lo stesso Silvio Berlusconi, all’interno del centrodestra, ha ridotto le distanze dalla Lega sulle prospettive politiche e sul modo di fare opposizione.

Alla paura di favorire, o tornare a favorire Salvini sul terreno sempre scivoloso dell’immigrazione si aggiungono fra i grillini le frustrazioni, a dir poco, di una collaborazione col Pd sempre più difficile e onerosa. Essa è già costata loro tre presidenze di commissioni al Senato e due alla Camera, con rivolte interne che hanno letteralmente travolto i vertici dei gruppi parlamentari e complicato ulteriormente la marcia di avvicinamento agli Stati Generali, cioè congressuali, del Movimento ora sostanzialmente acefalo, e per niente rassegnato a consegnarsi mani e piedi, se fosse necessario, a Conte. Che, dal canto suo, non sembra avere molta voglia di avventurarsi in questa direzione, sapendo di muoversi su un terreno minatissimo.

Non vi è praticamente questione, ora anche quelle del referendum confermativo dei tagli dei seggi parlamentari, in mancanza di una nuova legge elettorale, e dei decreti delegati per la riforma dello sport, su cui i grillini non si scontrino spennando anche i propri ministri. Vincenzo Spadafora è stato trattenuto a stento sulla strada delle dimissioni da un Conte precipitatosi all’ennesima mediazione, o rinvio.

Il groviglio dei contrasti personali e politici sotto le cinque stelle è tale che penso abbiano ormai sfibrato lo stesso Grillo. Che proprio in questi giorni -guarda caso- è stato richiamato ad una Grillo.jpegsua tragica esperienza dal sindaco di Limone Piemonte. Che lo ha invitato a rimuovere dal terreno dove l’aveva abbandonata la carcassa del Suv da lui imprudentemente guidato una quarantina d’anni fa  su una strada ghiacciata di montagna. Dal quale  il comico si buttò fuori, abbandonandone la guida, in tempo per salvarsi ma  provocando la morte di tre ospiti.

Non vorrei che il Movimento spinto da Grillo  due anni fa al governo, e di cui è tuttora “garante”, “elevato” e quant’altro, facesse la stessa fine di quel fuoristrada, e gli italiani fossero condannati alla stessa sorte di quei tre sventurati: Renzo Giberti, Rossana Quartapelle e il loro figliolo Francesco, di 9 anni. Fu omicidio giudiziariamente colposo, non so come traducibile in termini politici se il governo Conte dovesse fare la stessa fine di quell’auto in una legislatura diventata più insidiosa di una strada sdrucciolevole su uno strapiombo.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso l’8 agosto da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

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