Il vulnus dei tagli ai seggi parlamentari è il Quirinale, generalmente ignorato

              Stupisce che il pur accresciuto dibattito sul taglio dei 345 seggi parlamentari su 945 sottoposto alla verifica referendaria del 20 settembre, per quanto abbia fatto segnare quello che Gazzetta.jpegGiuseppe De Tommaso ha felicemente definito sulla Gazzetta del Mezzogiorno “il fascino indiscreto del no”, ignori il principale vulnus politico e istituzionale di questa riforma fortemente voluta dai grillini. Che in Parlamento l’hanno imposta prima ai leghisti e poi, nel cambio della maggioranza di governo, al Pd che aveva votato contro nei primi tre dei quattro passaggi necessari fra Camera e Senato.

            Il vulnus si chiama Quirinale, dove il mandato di Sergio Mattarella scadrà nel 2022, per cui il nuovo presidente della Repubblica sarebbe condannato ad essere eletto, per rimanere in carica sino al 2029, da un Parlamento delegittimato proprio da una eventuale vittoria del sì nel referendum: il Parlamento pletorico, inefficiente  e troppo costoso che i grillini vorrebbero fosse bocciato  dagli elettori con le forbici del sì referendario ai tagli. D’altronde, fra le ragioni fondanti della maggioranza giallorossa realizzatasi a sorpresa l’anno scorso fu sfrontatamente indicata quella di eleggere nell’attuale, pletorico e inefficiente Parlamento il nuovo presidente della Repubblica, per evitare che a provvedervi fosse un altro prodotto da elezioni anticipate prevedibilmente vinte dal centrodestra, per giunta a trazione leghista.

E’ a dir poco disinvolta la lettura che fanno della figura del Presidente della Repubblica, e della sua funzione di garanzia fissata dalla Costituzione, i grillini e tutti coloro che, con varie motivazioni, continuano a sostenere la causa della sforbiciata parlamentare senza preventive o contemporanee correzioni di regolamenti, legge elettorale e maggioranze qualificate richieste oggi per passaggi fondamentali, fra i quali c’è anche l’elezione del capo dello Stato. Cui concorrebbero, per esempio, a Camere tagliate senza altri aggiornamenti gli stessi 60 delegati regionali richiesti in un Parlamento di 945 seggi elettivi e almeno cinque fra senatori a vita o di diritto qual è quello in carica.

            Mi chiedo quale rappresentanza politica e morale e quale  legittimità istituzionale potrà mai avere nel 2022 il nuovo capo dello Stato eletto dalle Camere attuali ma nella prospettiva di un Parlamento così diverso come quello derivante dalla vittoria del sì referendario. Almeno si abbia il coraggio, il buon gusto, la decenza politica -direi- di chiedere e ottenere Mattarellapreventivamente da Mattarella la disponibilità a farsi rieleggere con l’impegno di dimettersi alla nascita del nuovo Parlamento, l’anno dopo, perché possa essere il nuovo a scegliere il successore. Ma neppure ci provano a questo passaggio i disinvolti grillini, decisi con i voti di cui dispongono oggi a Montecitorio e a Palazzo Madana ad eleggere un presidente alla cui scelta potrebbero contribuire ben più modestamente dopo le prossime elezioni, quando essi sono i primi a sapere di non poter tornare con le generose percentuali del 2018.

            In questo quadro così devastante, opportunistico e compromesso meraviglia che un fine costituzionalista come Valerio Onida abbia appena sposato il sì al referendum pensando di Onida 1 .jpegsalvarsi l’anima col rifiuto Onida 2.jpegdelle motivazioni della riforma addotte dai grillini. Egli infatti “odia” addirittura “il taglio” vantato dai pentastellati e trova “fasulla” la ragione del “risparmio” perché giustamente “non si risparmia sulle istituzioni”. In un certo senso il fronte fascinoso del no dovrebbe essere grato a Onida per gli ottimi argomenti che gli ha fornito dal fronte del sì parlandone a Repubblica.

 

 

 

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In morte di Arrigo Levi, maestro coraggioso di giornalismo

Arrigo Levi, morto a 94 anni nella sua abitazione romana dove aveva voluto tornare apposta dall’ospedale in cui era ricoverato per spegnersi fra le sue cose, i suoi libri, i suoi quadri, consapevole che stesse appunto arrivando la fine di una vita così intensamente trascorsa, ha ricevuto dal giornalismo molto più di quanto non gli abbia dato. Lo dico nonostante egli avesse diretto la prestigiosissima Stampa dal 1973 al 1978, succedendo ad Alberto Ronchey, avesse fatto a più riprese l’inviato, il corrispondente da sedi importanti come Londra e Mosca anche per il Corriere della Sera, avesse lasciato il suo segno di giornalista televisivo alla Rai e alla Fininvest di Silvio Berlusconi, per non parlare delle sue collaborazioni con la stampa internazionale, a cominciare dal Times.

Levi avrebbe meritato ben più direzioni di quotidiani. E le avrebbe ottenute se solo avesse avuto un carattere meno forte. Con quello che invece aveva, e che non faceva proprio nulla per nascondere, gli editori-generalmente in Italia non puri ma rimediati, con interessi prevalenti in altri settori- tendevano più ad ammirarlo ed apprezzarlo, per carità, che ad assumerlo come direttore. Gianni Agnelli questo coraggio lo ebbe. E ne fu ricambiato perché negli anni di piombo il direttore della Stampa, in una città peraltro come Torino, seppe fronteggiare l’emergenza con lo stesso spirito combattente con la quale da ebreo italiano si era arruolato come volontario nell’esercito di Israele nella prima guerra in cui lo Stato fondato da Davide Ben Gurion nel 1948 rischiò di morire.

Arrigo Levi si era scelto come vice direttore al giornale della Fiat Carlo Casalegno, che le brigate rosse uccisero nel 1977 anche per intimidire lui, il direttore, scambiandolo evidentemente per quello che non era, pur con tutta la storia personale e familiare che aveva già alle spalle, compreso l’esilio antifascista del padre in Argentina.

Era stato Levi alla direzione della Stampa nel 1973 a chiamare per primo e ad ospitare come collaboratore -e che collaboratore- Indro Montanelli appena licenziato dal nuovo direttore del  Corriere della Sera Piero Ottone. Al quale Giulia Maria Crespi aveva affidato il compito di spostare a sinistra il giornale più tradizionale e diffuso della borghesia lombarda e nazionale.

Proprio dalle colonne del Corriere  Giovanni Spadolini, aiutato poi dallo stesso Montanelli a passare alla politica nelle liste del Pri di Ugo La Malfa per rasentare nel 1992 il Quirinale, aveva cercato di contrastare la rassegnazione  o paura o smania, secondo i casi, di una corsa a sinistra.

Dalla finestra della Stampa Montanelli era riuscito a rimanere affacciato sui suoi lettori preparando l’avventura del Giornale nuovo, ad acquistare le cui copie in edicola per un bel po’ di tempo si rischiava fisicamente. Montanelli d’altronde sarebbe entrato pure lui nel mirino delle brigate rosse, per fortuna non lasciandovi la vita.

La fermezza di carattere, la puntigliosità con la quale preparava i suoi articoli e le sue trasmissioni, o ne ordinava agli altri controllandone l’esecuzione, non hanno mai fatto perdere a Levi apertura e generosità ai colleghi, specie i più giovani. Ne sono  testimone per un incontro avuto con lui quando, nominato direttore editoriale di Video news, la struttura della Fininvest cui faceva capo un suo celebre settimanale televisivo, ebbi occasione d’incontrarlo. Certo, le nostre opinioni politiche non erano proprio uguali. A me piaceva la politica fortemente autonomista e anticomunista di Bettino Craxi, a lui meno o per niente, pur avendo collaborato da giovane -mi raccontò lui stesso- alla rivista socialista Critica Sociale diretta allora da Guido Mondolfo. Ebbi la sensazione però che di Craxi a Levi non piacesse il temperamento, più che la politica. E debbo dire, onestamente, che Bettino faceva poco per  rendersi più simpatico, o meno antipatico, come preferite.

Sono sicuro, a tanti anni di distanza, che se Levi e Craxi, o viceversa, avessero avuto l’occasione, la voglia e quant’altro di parlarsi e confrontarsi direttamente, come capitò a me quella volta di fare con Levi parlando proprio di Craxi e della sua politica, si sarebbero intesi, o scoperti meno lontani o più vicini.

Lasciatemi scrivere, a conclusione di questo ricordo personale, che non mi è piaciuta l’enfasi con la quale in memoria di Arrigo Levi ho sentito parlare in televisione dell’esperienza ch’egli ha avuto, dopo la sua lunga avventura professionale, di consigliere di ben due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Che hanno potuto avvalersi della sua esperienza, della sua cultura, del suo cosmopolitismo, con quelle quattro lingue in cui parlava e scriveva correntemente, e con la trentina di libri che ha scritto. Ma, con tutto il rispetto dovuto al Quirinale e ai suoi inquilini, il vero mestiere, la vera passione di Arrigo Levi è stata quella del giornalismo, scritto e parlato. Da cui -ripeto- egli ha ricevuto meno, molto meno di quello che ha dato.

Addio, maestro, come pensai alla morte di Montanelli dopo le stagioni della scuola, leggendone articoli e libri, della collaborazione al Giornale e della separazione professionale avvenuta per una diversa lettura della politica di Craxi, di cui anche Montanelli, come Levi, diffidava più per temperamento che per altro.

 

 

 

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