La notizia buona ma scomoda di cui Zingaretti non può vantarsi nel Pd e fuori

             Impegnato in una edizione inusuale e difficile delle feste dell’Unità, alle prese contemporaneamente con le paure del Covid, delle elezioni regionali del 20 settembre e del contemporaneo referendum nazionale sulla riduzione dei seggi parlamentari, che vede i militanti del Pd molto divisi ma tentati più dal no che dal sì dovuto agli alleati grillini, Nicola Zingaretti ha una buona notizia di cui però non può vantarsi, né fuori né dentro il partito.

              La notizia, fornitagli sul Corriere della Sera da Nando Pagnoncelli con una certa evidenza in prima pagina, è quella della ormai certa vittoria elettorale in Campania, che è una delle sette regioni Pagnoncelli su Campania.jpegin cui si voterà fra meno di un mese. Il “governatore” uscente e piddino Vincenzo De Luca nel sondaggio appena effettuato da Ipsos per il Corriere      ha ben 21 punti di vantaggio sul candidato del centrodestra Stefano Caldoro e più di 34 sulla candidata grillina Valeria Ciarambino. Che non potrà certo sperare in chissà quale aiuto da visite, telefonate, incontri e persino qualche comizio promessole dal corregionale ministro degli Esteri Di MaioLuigi Di Maio, pubblicamente impegnatosi a sostenere le donne e gli uomini del suo movimento che corrono da soli, pur essendosi anche lui convertito negli ultimi tempi alle nuove simpatie per il Pd coltivate da Beppe Grillo in persona. Che cominciò la sua avventura politica -non dimentichiamolo- 11 anni fa in terra sarda iscrivendosi alla sezione del Pd di Arzachena, nel cui territorio il comico genovese ha una casa di vacanza. Vi si iscrisse puntando dichiaratamente a concorrere alle primarie per la successione al dimissionario Walter Veltroni dalla carica di segretario.

            Il rifiuto oppostogli dall’allora reggente Dario Franceschini, adesso capo della delegazione del Pd nel secondo governo Conte, fece andare su tutte le furie Grillo. Che se la legò al dito e organizzò in tutta fretta Grillo.jpega Bologna un comizio per “vaffanculare” -parola sua- il Pd e tutti gli altri partiti e seminare in piazza un suo movimento. Col quale adesso Zingaretti, dopo avere fatto un accordo di emergenza l’anno scorso per evitare elezioni anticipate a sicura vittoria del centrodestra a forte trazione leghista, vorrebbe farne altri non più di emergenza e forzati, ma ordinari, di prospettiva nazionale e periferica.

            Il forte vantaggio di De Luca sui concorrenti dipenderà, come scrive Nando Pagnoncelli sul Corriere della Vincdenzo De LucaSera, dalla sua “prorompente personalità”, in edizione originaria e in versione imitata da Maurizio Crozza in televisione, ma anche dalla sua dichiarata, netta contrarietà alla linea politica di Zingaretti. Che lui ha sfidato a sottoporre ad una verifica congressuale dopo l’imminente turno elettorale di settembre, e prima di quello dell’anno prossimo riguardante un bel po’ di Comuni italiani importanti, fra i quali Napoli.

            Grazie a De Luca, che è riuscito a raccogliere attorno alla propria candidatura ben 15 liste, rappresentative -ha scritto sempre Nando Pagnoncelli- di “segmenti sociali e politici molto variegati e trasversali”, il Pd ha conservato praticamente intatta la sua consistenza elettorale del 19 per cento tornando in testa alla graduatoria regionale e ricacciando i grillini dal 33,8 per cento delle elezioni europee dell’anno scorso al 17,2 valutato oggi. Non parliamo poi della Lega, scesa dal 19,2 delle europee di un anno fa al 3,3 per cento. Ma quel 19 per cento del Pd salirebbe addirittura al 31 col 12 per cento dei voti accreditati alla sola lista personale di De Luca, cresciuta di 7 punti e mezzo rispetto alle precedenti elezioni regionali.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

Il Parlamento bonsay già prodotto dai grillini prima del taglio dei seggi

Signore e signori del teatrino della politica italiana, in assenza degli spettacoli di Beppe Grillo, fermi un po’ per l’estate e un po’ per precauzione virale, ecco a voi il Parlamento bonsay che ha partorito Luigi Di Maio in una intervista al Corriere della Sera. Che pure sembrava dettata dalla buona intenzione di svelenire almeno un po’ il taglio dei seggi parlamentari sottoposto a verifica referendaria.

Perché -ha chiesto il ministro degli Esteri già capo del Movimento 5 Stelle ma obiettivamente più visibile del “reggente” Vito Crimi- dovremmo tacere dei “risparmi” che deriveranno da 345 seggi parlamentari in meno nelle nuove Camere grazie alla riforma così fortemente voluta da noi? Già, perché? A dire il vero, come ha appena confermato l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che un po’ di conti li sa fare, almeno meglio di Di Maio, il risparmio sarebbe appena dello 0,007 per cento della spesa pubblica. Che sarebbe pari -hanno calcolato altri refrattari alle enfatiche calcolatrici grilline- ad un caffè al giorno per ogni italiano. Ma sempre di un risparmio si tratta, sostiene Di Maio.

Diamoglielo pure per buono a Di Maio e al suo movimento questo risparmio pur simbolico, più da tromboni che da trombe. Poi, magari, verranno altri risparmi tagliando, per esempio, le attuali indennità parlamentari, in una partita già annunciata dal ministro degli Esteri ma che forse si poteva giocare prima della riduzione dei seggi, e magari anche con effetto immediato, senza aspettare le Camere successive a quelle attuali. Ma sarebbe stata forse una partita più difficile. E’ più facile giocare contro quelli che non sono in campo, come è avvenuto con gli ex parlamentari ai quali sono stati tagliati i cosiddetti vitalizi, anch’essi con tanto di forbici esibite trionfalmente in piazza.

Ma più dei risparmi, che fanno storcere il naso a professori come Valerio Onida, deciso a votare sì ai tagli nel referendum del 20 settembre ma convinto anche che non si debba risparmiare sulle istituzioni, vale per Di Maio il fatto che con meno deputati e senatori potrà diventare finalmente efficiente e virtuoso il cosiddetto bicameralismo perfetto stabilito dall’articolo 72 della Costituzione. Che fu avventatamente messo in discussione, secondo lui, dalla riforma voluta nel 2016 dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e fortunatamente bocciata nel referendum per niente confermativo che gli costò la guida del governo.

Se due Camere sovrapposte e ripetitive, con le stesse funzioni, in grado di palleggiarsi all’infinito ogni legge o leggina, non hanno funzionato bene e si guadagnarono già nel 1979 le critiche di Nilde Jotti, appena eletta al vertice di Montecitorio, ciò è avvenuto secondo Di Maio per il loro sovraffollamento. Una volta dimagrite, esse funzioneranno alla perfezione, alla faccia della buonanima della Jotti, dalla quale comunque Di Maio ha preso la parte del discorso di quasi 40 anni fa ancora comodo per lui: quella in cui si parlava anche della possibilità di ridurre il numero dei parlamentari, sia pure in un diverso contesto.

Ciò che a Di Maio sembra essere sfuggito, pur essendo egli stato vice presidente della Camera per l’intera legislatura scorsa ed essendo al governo ormai da due anni, è che il bicameralismo “perfetto” pensato dai costituenti nel 1947 si è letteralmente perso per strada in questa legislatura così orgogliosamente segnata dai grillini al sostanziale comando dell’esecutivo con Giuseppe Conte. Si è perso per strada perché per varie ragioni, o con vari pretesti, come preferite, prima per i tempi imposti dalle scadenze comunitarie a proposito delle leggi finanziarie o di bilancio e poi per le emergenze virali, il bicameralismo si è fatto via via meno perfetto, o più virtuale, se non addirittura finto.

Con frequenza sempre maggiore, fra le doglianze e infine proteste soltanto della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, messa perciò alla berlina dal Fatto Quotidiano come una Regina Elisabetta all’italiana, il governo è ricorso alla cosiddetta questione di fiducia, decapitando emendamenti e dibattiti, per non far toccare palla ad uno dei due rami del Parlamento, costretto così ad approvare le leggi nel testo ricevuto dall’altro.

“Non far toccare palla” è esattamente l’espressione usata dalla presidente del Senato, giustamente insofferente della versione mini o bonsay del Parlamento che stiamo già sperimentando senza i tagli. Figuriamoci che cose ne sarà o potrà essere dopo, se il referendum del mese prossimo lo permetterà.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑