Ai funerali di Bobo Maroni mai così evidente la crisi di Matteo Salvini nella Lega

Non per volere strumentalizzare i funerali di  Roberto Maroni -Bobo per gli amici ma ormai anche per quanti neppure lo avevano mai conosciuto, il  leghista forse più noto e popolare dopo il fondatore del movimento Umberto Bossi- ma a vederne le immagini televisive e a leggerne le cronache degli inviati dei maggiori giornali viene spontaneo chiedersi se le esequie celebrate a Varese siano state solo dell’ex vice presidente del Consiglio, ex ministro dell’Interno e del Lavoro, ex presidente della regione Lombardia prematuramente scomparso per malattia. E non anche quelle politiche dell’uomo – Matteo Salvini- che ne raccolse a suo tempo la staffetta alla guida del partito irrimediabilmente orfano della leadership bossiana. Che era stata compromessa  non tanto dagli effetti di un ictus quanto dalla caduta di credito, ahimè e dolorosamente, personale nella gestione del Carroccio. 

“Che qui Salvini non giochi in casa -ha scritto da Varese l’inviato del Corriere della Sera Marco Cremonesi- si misura dal freddo applauso al suo arrivo”, ancora più freddo se paragonato a quelli rimediati da tanti altri convenuti ai funerali, a cominciare naturalmente dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: leader di un partito –Fratelli d’Italia- dove sono passati già molti leghisti e altri bussano da tempo alla porta, volendo seguire gli elettori che hanno già cambiato il loro voto. 

Pur intimamente e orgogliosamente compiaciuta di questa capacità di attrattiva politica, con una trasmigrazione diretta evidentissima ad una semplice lettura dei risultati elettorali e poi dei sondaggi, la Meloni probabilmente sarà anche tentata da qualche preoccupazione per la tenuta del suo governo e della maggioranza. Per quanto oggettivamente indebolito, come hanno appunto confermato anche i funerali di Maroni e la fredda accoglienza ricevuta dai leghisti del “territorio”, come lui preferisce dire, Salvini può compiere falli di difesa, chiamiamoli così, a discapito del governo. Di cui egli è vice presidente e ministro non certo secondario delle Infrastrutture, uso più a parlare che a tacere, più al controcanto che al canto. 

Oltre alla freddezza dell’accoglienza ricevuta da Salvini a Varese sotto quel “Grazie Bobo” steso al balcone della sede locale della Lega, è stata notata l’assenza non solo e non tanto di Umberto Bossi, alle prese con la sua non eccellente salute, e reduce dall’ennesimo allarme che ha fatto scattare ansie e controlli, quanto di qualcuno dei suoi familiari. Un’assenza e “un silenzio inspiegabile al punto -ha scritto Cremonesi- da far dubitare a molti che “l’Umberto” ne sia stato informato: ma il promotore del Comitato Nord Paolo Grimoldi garantisce”. 

L’inviato della Stampa Francesco Moscatelli ha inutilmente cercato almeno una corona o un cuscino di fiori di Bossi osservando: “Segno che la ferita di dieci anni fa, quando Maroni gli subentrò alla guida della Lega non si è mai rimarginata”. Come quella più recente avvertita da Salvini con la richiesta avanzata da Maroni di un cambiamento al vertice del movimento dopo i risultati elettorali del 25 settembre. Ma tra i due s’era già rotto da tempo il rapporto politico, nel contesto comunque di un logoramento più generale della vita interna di partito. 

Non a caso Filippo Maroni, il figlio maggiore di Bobo, nello struggente saluto rivolto al padre in Chiesa ha detto: “Nei momenti di difficoltà hai capito che la famiglia poteva essere un porto sicuro, hai capito che ci sono cose più importanti della politica con la p minuscola”. Di cui d’altronde il compianto Bobo non è stato la sola vittima nella storia, recente e non, del suo e nostro Paese. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Carlo Calenda e Matteo Renzi: Dio li ha fatti e poi li ha accoppiati

L’intervista a Repubblica in cui Carlo Calenda ha riconosciuto a Giorgia Meloni prima “il gesto importante” e  poi “l’atto di maturità politica” compiuti mostrando interesse al suo progetto di manovra economica, diverso naturalmente da quella varata dal Consiglio dei Ministri, e predisponendosi volentieri ad un incontro per confrontarsi, gli è già costata il sospetto, l’accusa e quant’altro di volere offrire “una stampella” al primo governo di destra-centro, anziché di centrodestra. Che è una distinzione politicamente maggiore di quella di genere che forse ha colpito di più la gente comune. 

Sospetto, accusa -ripeto- rafforzato dalla preoccupazione espressa dal leader o co-leader, come preferite, del cosiddetto terzo polo che il governo possa “sfaldarsi”, poco importa se per l’insofferenza di Silvio Berlusconi o per la instabilità ormai della leadership di Matteo Salvini nella Lega. “Sarebbero problemi per l’Italia e io non me lo auguro”, ha aggiunto Calenda spiegando che i partiti di centrodestra, o destra-centro, “hanno vinto le elezioni e devono governare”, forse anche grazie all’opposizione “mai pregiudiziale” del terzo polo, in modo da far vedere “cosa sanno fare”, lasciando il giudizio conclusivo agli “elettori”. Ormai “è finito -ha detto ancora l’alleato e ritrovato amico di Renzi- il tempo dei governi d’emergenza o d’opportunismo”, serviti in altre occasioni ad evitare, ritardandolo, il ricorso chiarificatore alle urne. 

L’alleato e ritrovato amico Renzi, appunto. I due si scambiano ogni volta che ne hanno l’occasione apprezzamenti e comprensioni, per carità, da quando hanno deciso di mettersi insieme, paghi del pur modesto elettorale del 25 settembre, conseguito in soli tre mesi rispetto ai dodici anni -ha ricordato Calenda- compiuti dalla Meloni per salire dall’1 all’8 per cento, ma poi al 25.

        Già alle elezioni europee del 2024 Renzi si è proposto, prima ancora che augurato, di sorprendere tutti facendo salire il suo terzo polo in testa alla graduatoria. Le europee a Renzi, si sa, hanno portato fortuna. Quelle del 2015, l’anno dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi, lo innalzarono come segretario del Pd al 40 per cento dei voti, come solo i democristiani riuscivano a fare ai loro tempi migliori. Cinque anni dopo il Pd, nello stesso tipo di elezioni, precipitò al 22 per cento, ma Renzi non ne era più il segretario, praticamente costretto a lasciare per il ben più modesto e rovinoso 18 per cento conseguito l’anno prima nelle elezioni politiche impostegli, secondo lui, dal presidente della Repubblica alla scadenza ordinaria. Diverso, sempre secondo lui, sarebbe stato l’esito, con ripercussioni sul dopo, se Sergio Mattarella lo avesse accontentato facendolo andare alle urne l’anno prima, sull’onda del 40 per cento -sempre quel benedetto 40- conseguito con i sostenitori della riforma costituzionale da lui intestatasi ma dannatamente bocciata nel referendum del 4 dicembre 2016. 

Ah, che piaghe ancora queste date e questi numeri per Matteo Renzi. Che non per questo, tuttavia, si è mai rassegnato al ruolo di un attore minore, e tanto meno di una comparsa. Se prima poteva costruire governi e maggioranze, adesso si accontenta di poter far cadere i primi e le seconde. Ne sa qualcosa, per non andare troppo indietro negli anni, Giuseppe Conte.  Che, grazie proprio a Renzi ancora nel Pd, riuscì a restare nel 2019 a Palazzo Chigi cambiando alleato, dalla Lega allo stesso Pd, ma fu dallo stesso Renzi, ormai fuori dal partito del Nazareno, praticamente rovesciato dopo poco più di un anno a vantaggio di un Mario Draghi inutilmente rappresentato o immaginato  disinteressato e stanco dall’avvocato pugliese: stanco, in particolare, per le fatiche alla presidenza della Banca Centrale Europea, a Francoforte.

Ora, come rottamatore in servizio permanente ed effettivo, Renzi si è appena avventurato, in una intervista alla Stampa, a realizzare proprio lo scenario temuto da Calenda: quello di una crisi del governo Meloni. Che è stata annunciata nel titolo dell’intervista già per “l’anno prossimo”, ma in realtà prevista dalle parole testuali di Renzi all’indomani delle elezioni europee del 2024. Allora -ha detto il rottamatore- “questo governo rischierà di andare a casa” per le difficoltà, evidentemente, all’interno di una maggioranza provata dai risultati elettorali. “Lì saremo pronti”, ha aggiunto Renzi al plurale, parlando -immagino- anche a nome di un Calenda apparso invece nella sua intervista a Repubblica per nulla convinto o smanioso di una crisi. 

E’ davvero strana- non credo solo per temperamenti- la coppia Calenda-Renzi, o viceversa. Dio li fa e poi li accoppia, dice un vecchio proverbio popolare usato anche per qualche felice commedia d’arte.

Pubblicato sul Dubbio

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