Beppe Grillo promette di essere il peggiore, chissà se solo in teatro

In una maglietta nera da non confondere, per favore, per una camicia di uguale colore fra  quelle evocate durante tutta la campagna elettorale dall’antifascismo militante, che scambiava per una riedizione della marcia su Roma di 100 anni fa la scalata di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, Beppe Grillo ha annunciato sul suo blog in terza persona il ritorno in teatro a febbraio. L’esordio sarà il 15 di quel mese a Orvieto, da dove il comico genovese, e ancora garante del MoVimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte, arriverà a Roma il 27 marzo attraverso Bologna, Napoli, Milano, Firenze e Sanremo. Ma il programma non è ancora completo.

Il nome dello spettacolo comico del super comico – “il più spiazzante, caustico e odiato di tutti i tempi”, si è autodefinito Grillo- può apparire un pò a doppio senso a chi apprezza magari l’artista, lasciandosene divertire, ma non il politico. “Io sono il peggiore”, dice il titolo del nuovo spettacolo che l’autore promette pieno di “rivelazioni”, dove “tutti sono coinvolti e nessuno è escluso”. Esso spazierà “dalla religione alle silenziose guerre economiche, passando per il metaverso, fino al lato oscuro dell’ambientalismo”. Speriamo che a febbraio sarà finita la guerra in Ucraina e Grillo potrà quindi risparmiarsi di interferirvi con i suoi missili verbali, o di sovrapporsi al pacifismo di Conte: il professore che egli aveva sottovalutato, strapazzandolo non più tardi dell’anno scorso come un incapace, o quasi. Ora, da garante Grillo ne è diventato quasi un dipendente, con quel contratto di consulenza, o simili, che ha negoziato fra telefonate e missioni a Roma. 

Quel diavolo di avvocato pugliese, pur a voti dimezzati rispetto alle elezioni del 2018, rischia di riuscire dove Grillo fallì personalmente e miseramente nel 2009, quando iscrivendosi d’estate alla  sezione di Arzachena, in Sardegna, tentò l’opa sul Pd anche allora -come oggi- appena messo sui binari di un congresso per le dimissioni di Walter Veltroni da segretario. Il turno adesso è di Enrico Letta, di cui Conte ha reclamato e già ottenuto la testa, visto che l’interessato si è dimesso, per tornare ad allearsi col Pd o assorbire quel che potrebbe restarne dopo l’ennesima scissione. Che spettacolo, signori, e senza neppure pagare il  biglietto, come dovranno invece fare gli estimatori di Grillo per andare a vederlo e sentirlo al teatro.

Per stare al nome del nuovo spettacolo del comico, fra le cose “peggiori” del grillismo politico ne abbiamo appreso proprio oggi una riferita sul Corriere della Sera da Francesco Verderami. Che ha scoperto e diffuso ciò che a luglio, quattro mesi fa, distratti dalla crisi del governo Draghi fortemente voluta da Conte insieme con le elezioni anticipate, era sfuggito a tutti. 

Alla Camera, notoriamente presieduta dal grillino Roberto Fico, che ora da ex la domina, diciamo così, dal suo ufficio mozzafiato ricavato nell’altana del palazzo di Montecitorio, si varò una “previsione pluriennale” di spesa invariata sino al 2024 anche per il finanziamento dei gruppi, pur essendo stati tagliati i seggi di un terzo con la riforma tanto voluta dai pentastellati per risparmiare. Così a parità di onere ma non di seggi, scesi in particolare da 630 a 400, i gruppi otterranno per ogni deputato non più 40 mila ma 77 mila euro l’anno, per un totale di quasi 31 milioni di euro. Bazzecole, direte, ma la questione non è tanto di quantità quanto di qualità. 

E’ un pò come se i gruppi avessero giocato al lotto e vinto. E i partiti avessero perduto voti e guadagnato più soldi.  Così, fra l’altro, mettendoli a carico dei gruppi parlamentari come collaboratori, Conte ha potuto procurare qualcosa come 70 mila euro l’anno, o circa tremila euro netti al mese, ad  amici di partito che, avendo già maturato due mandati parlamentari, non hanno potuto neppure tentare il terzo candidandosi. E non hanno al momento altro mercato a cui proporsi alle stesse condizioni. “Io sono il peggiore”, dice  – e ripeto- l’insospettabile spettacolo di Grillo.  

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Il Pd “dei baroni” e della “borghesia” a scuola serale da Carlo De Benedetti

Non è la prima volta che Carlo De Benedetti si esprime negativamente sul Pd di cui pure rivendicò la tessera d’iscrizione numero 1 sentendosi a casa sua col fondatore e primo segretario Walter Veltroni. Di cui condivideva appieno la vocazione cosiddetta maggioritaria, che avrebbe dovuto liberarlo di tanti alleati minori e fastidiosi, già costati la vita al primo governo di Romano Prodi, e ne avrebbero di lì a poco demolito anche il secondo.  

Peccato che, oltre a non prevedere, o addirittura a volere -come qualcuno lo accusò- anche la seconda decapitazione di Prodi, l’ancor fresco primo segretario del Pd derogò  subito alla vocazione maggioritaria apparentandosi elettoralmente con Antonio Di Pietro. Che non gli portò molta fortuna, facendogli peraltro lo scherzo di rimettersi subito in proprio con gruppi parlamentari autonomi, nella presunzione -disse, ahimè ascoltato- di marciare divisi per meglio colpire uniti. Sono finiti come sono finiti l’uno e l’altro: l’uno, Veltroni, avendo tuttavia il paracadute della cultura che gli ha permesso di produrre film, libri, editoriali del Corriere della Sera di tutto rispetto, l’altro dividendosi fra uno studio legale di cui ho letto e sentito parlare assai poco, meno comunque di quanto mi fossi aspettato, e le sue raccolte d’olive, nella mitica Montenero di Bisaccia. Che hanno fatto da sfondo a tante rievocazioni giornalistiche delle sue ormai lontane gesta di magistrato. 

Accusato all’inizio di una lunga intervista ad Aldo Cazzullo con cui ha voluto  tornare al capezzale del grande ammalato, di avere “conquistato la borghesia”, a cominciare da lui che spero non si offenda a sentirsi definire borghese, e di avere “perso il popolo”, il Pd è stato rappresentato dall’editore di Repubblica e ora di Domani  come “un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un’elezione”. E “la segreteria Letta” ancora in carica per il disbrigo degli affari congressuali “un disastro”. E il Pd, ancora lui, modellato a sua immagine e somiglianza dall’ex presidente del Consiglio ritiratosi per un pò a Parigi per dimenticare Matteo Renzi che lo aveva sgarbatamente rimosso da Palazzo Chigi, “arrogante”, “supponente” e responsabile, con la sua corsa solitaria nell’ultima campagna elettorale, della “vittoria della destra”. 

In verità, qualche compagno o amico di strada Enrico Letta l’ha cercato e voluto riuscendoli pure a trattenere, diversamente da Carlo Calenda e Matteo Renzi ritrovati solo per pochi giorni. Il segretario del Pd li ha perduti preferendo a loro la minuscola sinistra di Nicola Fratoianni e l’altrettanto minuscolo verde Angelo Bonelli. Ma De Benedetti forse non se n’è accorto, come anche di Emma Bonino e di Benedetto Della Vedova incollati al  + di Europa, non non del loro elettorato. 

Neppure la scelta preferenziale di Mario Draghi non dico come alleato, perché  non era nella partita elettorale, ma come una persona abbastanza competente e autorevole sul piano internazionale per vantarsi di sostenerlo, è stata giusta secondo De Benedetti. E’ stato -ha detto al Corriere della Sera– come “guardare al passato”, anziché al “futuro” di cui hanno “bisogno” gli italiani. E così l’ingegnere ha sistemato anche l’ex presidente della Banca Centrale Europea.  Volete mettere la capacità divinatoria e accattivante di Giuseppe Conte da Volturara Appula? Le 5 Stelle sì erano la scelta giusta, rifiutata per la già citata arroganza e, in più, per “stupidaggine”. 

Forte di tutto questo armamentario polemico e accademico, in senso professorale, di scuola politica a cominciare dall’abc, De Benedetti ha concesso qualche consiglio salvifico per almeno il futuro immediato.  E’ quello per esempio, di lavorare subito per far “cadere Matteo Salvini” sposando la candidatura di Letizia Moratti alla presidenza della Lombardia, e con lui l’intero governo “disastroso”, “obbrobrioso” e quant’altro che porta il nome di Giorgia Meloni. La quale avrà pure incantato, con o senza la sua figliola Ginevra, qualcuno al G20 di Bali, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti tanto ammirati, anzi amati da De Benedetti, ma rimane una sprovveduta, a dir poco, che  aveva scambiato Emmanuel Macron per uno che “deve governare l’immigrazione nel Mediterraneo” e non la Francia, dove “ha una forte opposizione di destra, con Le Pen e Zemmour”. 

Con questo pò pò di avversari in patria, anzi in Patria con la maiuscola, “era chiaro -ha  mandato a dire De Benedetti del presidente francese alla premier italiana e ai suoi ministri- che gli sarebbero saltati al collo con una nave che era al largo delle coste italiane. Eppure l’ha fatto. E il governo italiano ha dimostrato un’ignoranza politica tremenda. Ha perso un alleato, con un errore che un bambino delle elementari avrebbe evitato”. Torniamo insomma all’abc. “Una figura da cioccolatai”, ha detto ancora l’ingegnere senza spiegarci che cosa mai gli abbiano fatto in fondo i cioccolatai. 

Mah, vedremo se De Benedetti accorderà ai “baroni” del Nazareno anche qualche supplemento serale di lezione su come uscire dalla crisi in cui si sono cacciati. Certo, di solito ai partiti non piace farsi dare lezioni da fuori. Se ne accorse a suo tempo addirittura Eugenio Scalfari, d’accordo con l’allora amico ed editore De Benedetti, consigliando al Pds-ex Pci di votare Giovanni Spadolini al Quirinale piuttosto che Oscar Luigi Scalfaro. Quelli, i post-comunisti, fecero il contrario. Era il 1992. E da lì ne nacquero di cose. 

Pubblicato sul Dubbio

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