Perfino Goffredo Bettini comincia a sbottare contro Giuseppe Conte

Persino Goffredo Bettini, l’uomo che ha sussurrato un pò a tutti i cavalli della sinistra, persino al bizzarrissimo Matteo Renzi, adottando alla fine un esterno, davvero estraneo ad ogni tradizione di quel campo come Giuseppe Conte, sta riconoscendo che ora il presidente del MoVimento 5 Stelle esagera nell’avversione al Pd. “La mia autonomia politica nei confronti di Conte è forte. E’ totale”, ha appena detto al Foglio prima di partecipare all’odierna assemblea nazionale del suo partito, dove potrebbe essere ridotto di qualche settimana, almeno, il lungo percorso congressuale per sostituire Enrico Letta alla segreteria con qualcuno dei candidati già emersi o con altri a sorpresa. 

“La cordialità umana resta”, ha detto Bettini parlando sempre del rapporto con l’ex presidente grillino del Consiglio, ma…..”Politicamente, e penso alla decisione di correre in solitaria nel Lazio, Conte -ha spiegato Bettini- potrà dare qualche soddisfazione al suo partito ma finirà per rafforzare il governo di centrodestra”, facendo conquistare dalla coalizione guidata adesso a livello nazionale da Giorgia Meloni anche la regione Lazio del governatore uscente Nicola Zingaretti: quello che prendendo molto sul serio lo stesso Bettini aveva definito l’anno scorso Conte “il punto di riferimento più alto dei progressisti”. Ora invece la sua è “una strategia inutilizzabile” a giudizio anche dell’uomo del Pd orgoglioso -ha detto sempre al Foglio- della sua “durata”, per quanto alcuni vogliano che “taccia”. “Io sono ancora qui. Io resto”, ha aggiunto assicurando anche che il suo “desiderio di pensare la politica sarà insopprimibile”. Non credo, a questo punto, saltando nel partito di Conte per aiutarlo a sorpassare davvero il Pd, come ogni tanto avviene in qualche sondaggio fra gli applausi del Fatto Quotidiano. 

L’ultimo sondaggio, in ordine di tempo, è quello appena sfornato da Alessandra Ghisleri, che ne riferisce oggi personalmente sulla Stampa attribuendo al Pd il 17,4 per cento delle intenzioni di voto, con l’aumento di quasi un punto rispetto ad una quindicina di giorni fa, e al partito di Conte il 16,5: mezzo punto in meno dell’altra volta. Giorgia Meloni e i suoi fratelli d’Italia sono invece ancora sopra di circa due punti ai risultati elettorali del 25 settembre col 28,5, La Lega di Matteo Salvini al 10,2, con poco più di un punto sopra, e Forza Italia di Silvio Berlusconi distanziata ancora di più col 6,1: quasi due punti e mezzo dietro anche al cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. 

Per tornare al Pd e alle sue pene si è fatto sentire anche il segretario uscente per rispondere alla scrittrice Michela Murgia, che ieri sulla Stampa aveva scritto della “scomparsa” ormai del patito del Nazareno e lo aveva sfidato a dire finalmente “qualcosa di sinistra”, senza farsi scavalcare dagli intellettuali come lei. Enrico Letta si è difeso, sullo stesso giornale, rivendicando il merito di avere avviato col congresso “la rigenerazione di un partito che accetta, unica forza politica tra quelle uscite sconfitte dal voto, di mettersi in discussione per capire che cos’è che non ha funzionato e cambiare”.

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Leone rimosso e Cossiga promosso dopo la tragica fine di Moro

Premetto di essere stato amico di Francesco Cossiga prima, durante e dopo  il suo settennato al Quirinale. E di essere stato testimone delle sofferenze procurategli dalla tragica fine di Aldo Moro. Che causò le sue dimissioni da ministro dell’Interno, predisposte in verità anche nel caso in cui l’allora presidente della Dc fosse sopravvissuto alla prigionia nelle mani dei brigatisti rossi. Cossiga si sentiva comunque responsabile “oggettivamente” -diceva- di quell’attacco riuscito del terrorismo allo Stato. A volte sognava di essere stato lui a sparare all’amico.

Una mattina mi trovai in drammatica difficoltà a contenere il  pianto di Francesco al Quirinale, scoppiato all’improvviso mentre evocavamo insieme i giorni della detenzione di Moro nella “prigione del popolo”. Così i brigatisti nella fanatica visione che avevano della loro missione di sangue chiamavano il covo dove avevano nascosto e “processato” l’ostaggio per condannarlo a morte. 

Non sapevo se e a chi rivolgermi per fermare quel pianto, senza riuscire peraltro a capire bene  il senso delle parole che Cossiga pronunciava fra i singhiozzi commentando, in particolare, le tensioni vissute con la famiglia Moro, in particolare la moglie. 

Ha forse ragione, per carità, Luca Telese -anche come familiare del compianto segretario del Pci Enrico Berlinguer- ad avere visto su TPI nell’Eterno notte di Marco Bellocchio appena trasmesso dalla Rai un eccesso di “revisionismo”. Da cui Moro sembra risultare “vittima” non del “piombo dei brigatisti”, che uccisero anche lui 55 giorni dopo averne sterminato la scorta per strada, ma del “feroce regime democristiano-comunista-atlantico”. Che lo voleva morto ancor più dei terroristi casualmente o deliberatamente complici, anzi esecutori di un complotto politico internazionale ordito contro il tessitore in Italia di una linea politica che disturbava un mondo esteso dagli Urali agli Stati Uniti, oltre Atlantico. 

Ma anche Telese deve rendersi conto che quella tragedia si consumò fra troppi misteri rimasti ancora tali dopo tanti anni anche per la irriducibile indisponibilità dei terroristi via via catturati, processati, condannati e tornati in libertà a raccontare fino in fondo la verità. Cioè a rivelare le complicità di cui ebbero oggettivo bisogno negli apparati di sicurezza per compiere la loro impresa di una potenza molto meno geometrica di quella descritta quasi con ammirazione da certi spettatori politici che se non avevano simpatia per i terroristi, poco ci mancava. 

Ci fu qualcosa, al di là degli stessi fatti indagati dalla magistratura -dalla famosa seduta spiritica riferita da Romano Prodi, per esempio, alle voci sul covo brigatista individuato ma non assaltato, o di quell’altro covo inutilmente segnalato, scoperto alla fine per una perdita d’acqua e risultato la centrale dell’operazione del sequestro- che lasciò sulla tragedia Moro l’impressione torbida di un complotto non internazionale ma tutto interno. E anche di una volontà per niente forte di chiarire in sede giudiziaria e/o politica le responsabilità a tutti, veramente tutti i livelli, senza riguardi per niente e per nessuno. 

Si preferì decapitare politicamente il presidente della Repubblica Giovanni Leone, con pretesti non so se più risibili o vomitevoli, solo per avere lui tentato di graziare una detenuta compresa nell’elenco dei “prigionieri” da scambiare con Moro. E non si ebbe un solo istante di esitazione, di dubbio, di scrupolo a far salire al Quirinale, dopo i sette anni di Sandro Pertini succeduto al dimissionario Leone, proprio l’ex ministro dell’Interno che si era assunto con le dimissioni la responsabilità “oggettiva” del sequestro di Moro e della sua fine. Ma già prima  del Quirinale Cossiga aveva potuto insediarsi a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio e a Palazzo Giustiniani come presidente del Senato. 

Vi confesso di essermi sentito profondamente a disagio, a dir poco, nelle sequenze finali di Esterno notte a vedere, dopo le sequenze della prigione, del cadavere di Moro, dei funerali pubblici e privati, il Cossiga autentico, in immagini riprese dal vivo, non quello recitato nel “megametraggio”, come lo ha definito Telese, giurare davanti al Parlamento in seduta congiunta insediandosi alla Presidenza della Repubblica. Sono immeritevole, a posteriori, della sua amicizia? O sono, più semplicemente, un giornalista sconcertato della sua stessa incapacità, in fondo, di avvertire subito l’anomalia, se non l’enormità, di quella scelta? Che fu fatta insieme da Cossiga, accettando, dai suoi colleghi eleggendolo e dagli amici condividendola, compreso l sottoscritto, senza immaginare le distanze che potevano aumentare fra Palazzo e popolo, il cosiddetto estabilishment e la gente comune. 

Pubblicato sul Dubbio

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