Macron e Mattarella replicano lo spot della telefonata che allunga la vita

Sergio Mattarella da Roma ed Emannuel Macron da Parigi, entrambi al loro secondo mandato di presidenti della Repubblica d’Italia e di Francia, sono dunque tornati dopo tre anni alla pratica dello spot del telefono che allunga la vita. Anche quella delle relazioni politiche e istituzionali minacciate da improvvide iniziative -avrebbe detto la buonanima di Amintore Fanfani- di esponenti di governo non proprio all’altezza delle loro funzioni.

Tre anni fa, nel 2019, i due presidenti contennero i danni dell’allora vicepresidente del Consiglio e pluriministro Luigi Di Maio, che scortò l’amico Alessandro Di Battista in una visita a Parigi di incoraggiamento ai “gilet bianchi” in  violenta rivolta. Il telefono riuscì nel miracolo anche di fare ingoiare a Macron dopo qualche mese la promozione di Di Maio a ministro degli Esteri, addirittura. 

Ora i due presidenti al telefono hanno messo una toppa allo sbrego prodottosi nelle relazioni fra i due paesi dalla rincorsa fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il vice presidente Matteo Salvini nella gestione più dura possibile degli sbarchi dei migranti soccorsi in mare da navi del volontariato battenti bandiere di paesi europei che reclamano il diritto di non occuparsene. Essi lasciano praticamente all’Italia l’onere di un’accoglienza umanitaria e indiscriminata. 

Riusciti -forse grazie proprio a quella telefonata di tre anni fra l’Eliseo e il Quirinale, e al successivo trattato bilaterale firmato quando Mario Draghi era ancora a Palazzo Chigi- a convincere con una certa discrezione Macron a fare sbarcare per la prima volta sul territorio francese i 334 migranti soccorsi dalla nave Ocean Viking battente bandiera norvegese, Salvini prima e la Meloni dopo se ne son pubblicamente vantati.Lo hanno fatto a  tal punto da mettere il presidente d’oltralpe nei guai in Francia e un pò anche a Bruxelles. E’ seguito tutto il resto, prevedibile per politici e diplomatici di una certa esperienza, sorprendente, esagerato, aggressivo e quant’altro per gente a dir poco inesperta. 

Si vedrà ora se e in quanto tempo la toppa messa allo sbrego dai due presidenti potrà tradursi a livello comunitario nella definizione di una nuova disciplina degli sbarchi su quelli che non sono solo i confini italiani ma anche i confini meridionali e maledettamente marittimi dell’Unione Europea. 

Il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, raccogliendo -credo- notizie di buona fonte in un palazzo che conosce e frequenta come casa sua, ha scritto che nel suo intervento telefonico  Mattarella non ha pensato di “commissionare Palazzo Chigi” o di “entrare nel merito delle scelte tecniche da fare sulle aperture  dei porti, sulle navi delle ong, sulla gestione degli sbarchi e, soprattutto, sul ricollocamento condiviso delle persone”: tutte cose da definire nelle sedi proprie di governo, a livello interno e comunitario. Ma il presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, muovendosi volente o nolente come un elefante in una cristalleria, ha voluto far dire a Mattarella quello che non ha detto, cioè di avere condiviso e appoggiato praticamente l’operato della Meloni e di Salvini. Benedett’uomo, perché qualche volta non si trattiene? 

“E’ abbastanza evidente -ha scritto Stefano Folli su Repubblica– che la premier subisce la pressione di Salvini, il quale pensa di trarre vantaggio da una tensione continua in cui a indebolirsi sarebbe la sua alleata-rivale. Lei ha saputo mettere nell’angolo il Carroccio durante la campagna elettorale ma oggi le parti rischiano di ribaltarsi”, avendo la Meloni paura di deludere il proprio elettorato. “Il rebus dovrà essere risolto in fretta, prima che si trasformi in un piano inclinato molto scivoloso”, ha concluso Folli facendo ottimisticamente credere che non siamo giù su quel piano. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Soffocanti per il governo gli abbracci di Salvini alla Meloni.

Per il centrodestra o destra-centro, col trattino come preferiscono chiamarlo i fratelli d’Italia –e concede ogni tanto Augusto Minzolini sul Giornale della famiglia Berlusconi, ma solo per irriderlo sottolineandone errori, pasticci e quant’altro- questa poteva essere una legislatura tranquilla, persino monotona per le condizioni in cui si trovano le opposizioni. Che sono divise ancor di più che nella campagna elettorale, col maggiore partito di quelle parti -il Pd- a rischio di dissoluzione. Altro che la rifondazione, rigenerazione e simili affidata ad un congresso lento come una lumaca dal segretario Enrico Letta, indisponibile a ricandidarsi alla guida di quello che lui chiama ottimisticamente  un “nuovo partito”. 

Eppure il centrodestra o, ripeto,  il destra-centro già cammina a vista, in una unità di intenti e di azione solo apparente, in realtà con quello che il Corriere della Sera ha definito non a torto “il controcanto di Forza Italia”. Un controcanto continuo non destinato a una crisi, per carità, non disponendo Berlusconi di alcuna sponda a sinistra: non nel Pd ridotto nelle condizioni già accennate, non nel partito ormai di Giuseppe Conte, che è ancora più a sinistra del Pd, né nel cosiddetto terzo polo, troppo piccolo perché qualcuno possa pensare di costruire con esso una maggioranza alternativa a quella uscita dalle urne del 25 settembre. Ma tanto più Berlusconi diventa prigioniero dell’ultima edizione di quello che si ostina a chiamare ancora centrodestra, quanto più di dimena e tende a prendere le distanze dagli alleati. La cui mancata compattezza nel percorso parlamentare dei provvedimenti del governo, adottati sinora soprattutto con lo strumento eccezionale del decreto legge, potrebbe riservare chissà quali e quante sorprese. Le opposizioni, pur malmesse, non si lasceranno certamente scappare le occasioni per dimostrare la possibilità di incidere. Peggiore di una crisi è per un governo la condanna a galleggiare sulle proprie divisioni, a prendere decisioni destinate a non uscire indenni dai passaggi parlamentari.

Forza Italia, considerabile l’anello debole della maggioranza, la componente più in sofferenza, ha potuto contare nella scorsa legislatura su un rapporto privilegiato con la Lega di Matteo Salvini -tanto privilegiato da perdere per strada pezzi significativi come tutti i ministri che la rappresentavano nel governo Draghi- per cercare di contenere la progressiva, implacabile avanzata di Giorgia Meloni verso l’obiettivo di Palazzo Chigi. Che aveva spesso indotto Berlusconi a parlarne più ridendo, o sorridendo nel migliore dei casi, che credendoci. 

Ora che Giorgia Meloni è davvero  in quel palazzo Berlusconi -e il suo cerchio più o meno magico, a cominciare da Licia Ronzulli, cresciuta proprio per i collegamenti con la Lega- si trova di fronte a un rapporto privilegiato tra la stessa Meloni e Salvini. Che temo  il Cavaliere non avesse proprio messo nel conto: una sorpresa peggiore di una sconfitta. 

Pubblicato sul Dubbio

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