Le sorprese della Meloni nel varo delle prime misure del suo governo

Il buon Massimo Franco sul Corriere della Sera ha visto nelle misure adottate dal Consiglio dei Ministri “un inizio molto identitario”, concedendo che “forse non poteva essere diversamente”. Un inizio identitario di destra cioè, essendo diventata di “destra-centro” la coalizione originariamente di centrodestra fondata nel 1994 e a lungo condotta personalmente, fra Palazzo Chigi  e l’opposizione, da Silvio Berlusconi. 

Certamente di destra può essere sommariamente interpretata,  con i canoni di certa sinistra, la durezza con la quale il Viminale, diversamente dalla precedente titolare, ha gestito la vicenda del “rave party” a Modena. Che si spera sia stata l’ultima edizione di questo tipo di raduni con licenza di droga e simili.

Eppure, poiché le reazioni politiche e mediatiche contano per farsi un’idea o un giudizio, l’apertura di un giornale come Il Fatto Quotidiano, che riflette spesso e a volte persino anticipa le posizioni di Giuseppe Conte, impegnato ora a correre più a sinistra di tutti, non sembra proprio un grido di protesta. Essa, pur definendo  nel sommario “ruspa” quella del ministro Matteo Piantedosi a Modena, ha soltanto  riferito: “Il reato di rave party, poi ergastolo e Covid” . Questo e non altro di più, ripeto, il giornale di Marco Travaglio ha registrato delle “prime misure del Cdm”. Le proteste di un giornale di opposizione di sinistra stile Conte si sono scaricate, col solito fotomontaggio e il resto, solo sull’“L’Armata Brancameloni” dei 39 sottosegretari, otto dei quali destinati ad essere viceministri, nominati per completare il governo cercando di accontentare il più possibile, o scontentare il meno possibile, i partiti della maggioranza. Da uno dei quali Giorgia Meloni ha accettato anche la designazione di Vittorio Sgarbi ai beni culturali, o alla Cultura tout court, come si preferisce dire ora a Palazzo Chigi. 

La competenza del mio amico Vittorio di sicuro c’è. Spero, per la Meloni, che arrivi anche il contenimento comportamentale e caratteriale dell’interessato, protagonista in passato come parlamentare e sottosegretario di episodi ispirati non proprio alla moderazione. Stavolta tuttavia Sgarbi se la dovrà forse vedere con un presidente del Consiglio -come la Meloni preferisce essere chiamata, al maschile- meno paziente. 

Ma torniamo alla prudenza, tutto sommato, del giornale più vicino a Conte nel registrare e riferire sulle prime misure del nuovo governo. E’ proprio indicando quello che il direttore in persona Piero Sansonetti ha chiamato addirittura “l’asse Meloni-Travaglio”, che un quotidiano orgogliosamente garantista come Il Riformista ha gridato contro il governo: “Giustizia: passa la linea fasciogrillina”. E ha aggiunto, tra parentesi, coinvolgendo nella protesta il nuovo ministro della Giustizia, pur famoso per le sue posizioni generalmente osteggiate dai suoi ex colleghi  magistrati d’accusa: “E Nordio? Se la dorme”. 

Il nuovo ministro, già candidato al Quirinale dalla Meloni, avrebbe concesso troppo proprio ai suoi ex colleghi d’accusa rinviando l’applicazione della riforma Cartabia del processo penale e non difendendo abbastanza il diritto reclamato -e un pò sostenuto anche dalla Corte Costituzionale- da condannati di mafia all’ergastolo di sottrarvisi con benefici derivanti da una lunga detenzione. E’ il problema del cosiddetto “ergastolo ostativo”: una cosa complicatissima che evidentemente neppure Nordio riesce a spiegare bene al pubblico, se è così facile anche per lui essere strapazzati dal buon Sansonetti. 

Speriamo, per Nordio naturalmente, così tanto voluto da Giorgia Meloni come Guardasigilli, al punto da impegnarsi in un braccio di ferro con Berlusconi che voleva al suo posto la ex presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, dirottata alla fine al Ministero delle Riforme; speriamo per Nordio, dicevo, che appaia più sveglio a Sansonetti nel prosieguo dell’azione di governo. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it

Se anche Berlusconi accorre al capezzale del Pd temendone la fine

“Un Pd in bambola, suonato come un pugile, è un pericolo per Giorgia Meloni perché regala la golden share della controparte politica al M5s di Giuseppe Conte, il quale -dal draghicidio in poi- è tornato a crescere grazie ai “no” a prescindere”. Così ha scritto Marco Zucchetti in un editoriale recente del Giornale della famiglia Berlusconi invitando “tutti”, sin dal titolo, a temere “il coma” in cui si trova il partito di Enrico Letta, messo sui binari di un congresso destinato a concludersi con le primarie solo il 12 marzo, fra quattro mesi e mezzo. 

“Un’enormità”, ha avvertito inutilmente l’ex presidente del Pd Matteo Orfini in un intervento all’ultima direzione al Nazareno lamentando, fra l’altro, la sottovalutazione del pericolo costituito da un Giuseppe Conte “ipocrita e trasformista”. Che da “punto di riferimento più alto dei progressisti” indicato dall’ex segretario del Pd Nicola Zingaretti è diventato il concorrente di Enrico Letta, e di chi gli succederà, alla guida dell’opposizione. Una gara -direi- nella quale, se la perdesse, il Pd passerebbe dal coma alla morte, dal reparto di terapia intensiva, dove è finito dopo la sconfitta elettorale del 25 settembre scorso, all’obitorio. Altro che “il nuovo Pd” propostosi dal segretario uscente in veste di “garante e arbitro” di tutto il percorso congressuale di “rifondazione”: un segretario liquidato con derisione da Libero come un “beduino vagante all’infinito nel deserto della sinistra”. 

Ma il pericolo avvertito dal Giornale per il coma del Pd davvero investe soltanto  Giorgia Meloni a causa di una “controparte” egemonizzata da Conte nella sua ultima versione di sinistra estrema, o quasi? E’ troppo malizioso pensare che ancor più della Meloni -certamente consapevole della durezza dello scontro con Conte, durante il cui discorso alla Camera sulla fiducia lei ha dato della “merda” secondo una ricostruzione labiale non smentita- il pericolo minacci Berlusconi? Il quale potrebbe trovarsi ancora più stretto di adesso nel destra-centro che è diventato il suo originario centrodestra se non potesse contare su un Pd dialogante per soluzioni d’emergenza in caso di crisi. 

D’altronde, pur avendo inaugurato la stagione del bipolarismo, basata sulla contrapposizione alla sinistra, Berlusconi non ha avuto molte remore a partecipare col Pd a maggioranze chiamate “larghe” o “di solidarietà nazionale”, secondo le circostanze.  Lo fece nell’autunno del 2011 cedendo Palazzo Chigi a Mario Monti e appoggiandone un governo tecnico osteggiato invece dalla Lega ancora di Umberto Bossi. Lo rifece nel 2013 col primo e unico governo di Enrico Letta, da lui preferito a un Matteo Renzi che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano era pronto già a chiamare a Palazzo Chigi se ne avesse avuto la designazione da una maggioranza riconosciutasi nella inopportunità di chiudere la legislatura appena cominciata. Il povero  Pier Luigi Bersani aveva ingenuamente creduto di poter formare con l’aiuto dei grillini un governo definito “di minoranza e combattimento”. 

Nel 2018 di fronte alla vittoria  elettorale imprevista delle 5 Stelle Berlusconi concesse praticamente alla Lega, nel frattempo passata sotto la guida di un Matteo Salvini che lo aveva peraltro sorpassato nelle urne, la licenza di un governo con Conte pur di evitare le elezioni anticipate, anche allora.  E quando, nel 2021, nel corso della stessa legislatura, fallì anche il secondo governo di Giuseppe Conte consentito a sorpresa dal Pd, Berlusconi non esitò un istante a aderire al governo e alla maggioranza “anomala” voluta dal presidente della Repubblica, nella impossibilità o indisponibilità alle elezioni anticipate in periodo di pandemia acuta,  mandando Mario Draghi a Palazzo Chigi. Allora Berlusconi si trascinò appresso la Lega nella maggioranza col Pd. Ne vollero rimanere fuori -o ne furono  esclusi per un veto dei grillini, secondo alcune fonti – i fratelli d’Italia della Meloni, non so se più fortunati o astuti nella conduzione di un’opposizione destinata a consegnare loro il centrodestra e, insieme, il primo governo peraltro a conduzione femminile nella storia d’Italia: un vero e proprio bingo. 

Di questo bingo della destra  Berlusconi, non a caso distintosi per imprevedibilità e nervosismo nei primi passi della nuova legislatura, e ancora tentato – parlandone con Bruno Vespa- da distinzioni sul versante della guerra in Ucraina, sembra francamente più un prigioniero, per quanto applaudito come un patriarca dal governo Meloni in piedi al Senato, che un beneficiario. E ancor più lo sarebbe se il Pd uscisse anche dalla scena dell’opposizione per dissolversi nel vuoto, o accettare la subordinazione ai grillini. La cui avventura, del resto, era cominciata nel 2009 con la tentata iscrizione dello stesso Grillo al Pd, in Sardegna, per scalarne la segreteria nazionale lasciata da Walter Veltroni. Al governo, in quei tempi, c’era ancora Berlusconi col suo centrodestra, per quanto già insidiato dalle ambizioni di Gianfranco Fini. 

Pubblicato sul Dubbio

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