Il Ferragosto fotografato di Luigi Di Maio e quello immaginario di Mario Draghi

Dal Tempo di Roma

            Di Luigi Di Maio, il giovane ministro degli Esteri della Repubblica d’Italia alle prese con la crisi afghana come tutti i suoi colleghi nel mondo, o almeno in quello occidentale di cui egli ha accettato di fare parte dopo o nonostante le sbandate sulla cosiddetta via cinese della Seta; di Luigi Di Maio, dicevo, in attesa delle foto, spero puntuali come le altre, sulla sua partecipazione alle riunioni europee sull’emergenza talebana, dobbiamo per ora accontentarci delle immagini sulla vacanza ferragostana nel Salento. O delle vignette che ne sono in qualche modo scaturite.

Massimiliano Panarari sulla Stampa

            Ci sarebbe poco da aggiungere al breve commento dedicato sulla Stampa all’infortunio del capo della Farnesina da Massimiliano Panarari. Che, ispirato appunto da una delle foto del ministro degli Esteri e dei suoi amici politici al mare, tutti del Pd, ha giustamente osservato che “l’espansionismo fondamentalista, malauguratamente, non si ferma sul bagnasciuga”.

La vignetta di Makkox sul Foglio

Qualcuno dirà che un infortunio come quello occorso a Di Maio, o off Maio, nella versione barzellettisica esplosa alla notizia della sua destinazione alla Farnesina, dopo avere accumulato nel precedente e primo governo di Giuseppe Conte le cariche di vice presidente del Consiglio, di ministro dello Sviluppo Economico e di ministro del Lavoro, potrebbe accadere a chiunque. Ma non è vero. Poteva ed è accaduto solo ad uno della esperienza, cioè dell’inesperienza, di Di Maio. Del quale non si può francamente parlare, sempre di fronte a quelle foto impietose, come dell’uomo giusto nel posto sbagliato. E neppure dell’uomo sbagliato nel posto giusto.

            Vengono un po’ i brividi a pensare che a 32 anni ancora da compiere, nella primavera del 2018, da capo del MoVimento 5 Stelle uscito dalle urne come la principale forza politica, erede sul piano numerico di quella che era stata la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, avrebbe potuto diventare presidente del Consiglio, e non solo uno dei due vice nominati per sorvegliare il presidente. E di nuovo ha rischiato di diventarlo l’anno dopo, se solo avesse accettato la strizzatina d’occhio, o qualcosa di più, rivoltagli da un Matteo Salvini, l’altro vice presidente del Consiglio allora in carica ma in difficoltà per avere sbagliato modi e tempi della crisi aperta praticamente su una spiaggia, o quasi, scommettendo sui “pieni poteri” che avrebbero potuto derivargli da uno scioglimento anticipato delle Camere, e conseguente ritorno alle urne.

            Caspita, possiamo ben dire di avere rischiato grosso. E avremmo potuto continuare a dirlo per il futuro più o meno immediato se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ci avesse fatto la grazia, poco più di sei mesi fa, di mandare a Palazzo Chigi uno come Mario Draghi. Che il Ferragosto non sappiamo neppure dove e come lo abbia trascorso: forse leggendo i rapporti sull’Afghanistan con le mani fra i capelli, e pensando a quel che erano riusciti a combinare nell’arco di vent’anni i capi più o meno professionali, e liberamente eletti, del suo e nostro amato Occidente. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Lezione di anti-populismo a Enrico Letta in corso-trasteverino….

Marcelle Padovani
Titolo del Dubbio

Patito com’è della cultura francese, tanto da esservisi rifugiato, o tornato, dopo la delusione procuratagli dalla politica italiana col brusco licenziamento da Palazzo Chigi per iniziativa del suo stesso partito -il Pd- appena passato sotto la guida di Matteo Renzi, nel 2014, Enrico Letta dev’essere rimasto come una statua di sale a leggere la lunga e bella intervista di Marcelle Padovani a Repubblica sui suoi quasi 50 anni trascorsi in Italia. Dove venne da Parigi, inviata dal suo Nouvel Observateur, per un reportage politico e, affascinata da Bruno Trentin intervistandolo, vi rimase  per unirsi a lui. E per scoprire e apprezzare l’aspetto o addirittura “la natura di laboratorio” politico e sociale del nostro paese.  Cioè di un luogo “dove -ha spiegato- si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse”.

            Il compianto Trentin, da lei conosciuto come segretario generale della Fiom ma destinato a diventare nel 1988 segretario confederale della Cgil, aiutò Marcelle, di una ventina d’anni più giovane di lui, a conoscere e capire il laboratorio di una sinistra ancor più divisa ed esposta al vento del terrorismo che nella sua Francia.

La storica foto di Falcone e Borsellino insieme
Il libro di Padovani con Giovanni Falcone

            Giovanni Falcone, che la trattò in un primo momento a Palermo con una rudezza da fuga ma alla fine se ne fidò a tal punto da scrivere praticamente con lei un libro a quattro mani, al cui testo dattiloscritto in francese propostogli nel 1991 a San Candido apportò solo qualche correzione, l’aiutò  a conoscere il laboratorio della mafia e quello attiguo -direi- dell’antimafia. Dove curiosamente si lavorava più contro Falcone che contro i mafiosi su cui indagava il magistrato più raffinato e culturalmente attrezzato d’Italia in quel tipo di lavoro. Non a caso la mafia lo avrebbe liquidato l’anno dopo, nel 1992, con una ferocia bestiale, organizzando contro di lui a Capaci un attentato da mattanza, quasi come quello che due mesi dopo avrebbe eliminato l’amico e collega Piero Borsellino.

            Secondo Marcelle noi italiani, con i quali prudentemente non si confonde, come con gli stessi francesi, preferendo definirsi per le origini isolane della sua famiglia una “corso-trasteverina”,  dimentichiamo “troppo in fretta” sia la natura di laboratorio del nostro Paese sia i successi che riusciamo a conseguire. “Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo”, ha detto.

            Il populismo è sconfitto?, le ha chiesto con un certo scetticismo Concetto Vecchio. E lei, sicura e al tempo stesso rapida nell’intuire l’errore che forse il suo intervistatore -probabilmente in linea, come vedremo, col segretario del Pd Enrico Letta- stava commettendo, ha risposto: “Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è soltanto un demagogo che ricorre al populismo quando gli serve”.

Marcelle Padovani a Repubblica

            Ecco il punto, come accennavo. E come il segretario del Pd temo che non abbia per niente gradito e tanto meno condiviso. Da quando è succeduto a Nicola Zingaretti interrompendo il suo dorato esilio parigino, fatto di insegnamento e di consulenze ben retribuite che gli ha appena rinfacciato un giornale come il debenedettiano Domani, che pure ad occhio e croce sembra condividerne la linea, Enrico Letta ha continuato a scommettere come il suo predecessore sull’evoluzione, chiamiamola così, dei pentastellati, anche a costo di trovarseli, con Giuseppe Conte alla presidenza del movimento, competitivi elettoralmente. E ciò almeno per quel poco che rimarrà dei grillini nelle prossime elezioni, anticipate o ordinarie che finiranno per essere, dopo o a causa del modo in cui le Camere scioglieranno a febbraio il nodo del Quirinale. Su cui peraltro Marcelle ha mostrato di avere idee, al solito, molto chiare. “Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato”, ha detto la giornalista e scrittrice, convinta dell’opportunità, anzi necessità, che Mario Draghi debba “rimanere a Palazzo Chigi” perché “ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo”.

Ma su questo penso che anche il segretario del Pd possa e debba riconoscersi, riprendendosi dal colpo ricevuto con la denuncia del “populismo” pentastellato più autentico e pericoloso, nella valutazione di Marcelle, di quello di Salvini avvertito e denunciato invece da Enrico Letta. Che nel suo antileghismo forse da ossessione più che da analisi, ignorando per esempio la musica che ormai suona quasi quotidianamente da quelle parti il ministro Giancarlo Giorgetti, si è messo a cavalcare anche il caso provocato dal sottosegretario salviniano Durigon. Il quale ha proposto di reintestare ad Arnaldo Mussolini il parco di Latina assegnato alla memoria di Falcone e Borsellino. “E’ la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no”, ha commentato con la solita franchezza Marcelle, la “corsa-trasteverina” che Enrico Letta potrebbe incontrare e frequentare solo attraversando dalla sua casa al Testaccio il primo ponte a portata di piede sul fiume di Roma.

Pubblicato sul Dubbio

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