Assalto del giornale di De Benedetti a Draghi per l’Afghanistan

            Su una cosa Carlo De Benedetti non ha mai litigato, né sopra né sotto il tavolo, col compianto Gianni Agnelli: sull’atlantismo. O, se preferite, sull’alleanza dell’Italia con gli Stati Uniti d’America. Sorprende perciò che al nuovo giornale dell’”ingegnere”, Domani, fondato per insegnare ai figli come fare l’editore dopo la rottura in famiglia sulla cessione di Repubblica al nipote dell’”avvocato”, sia sfuggito -credo, unico fra tutti i quotidiani italiani- l’atlantismo di ferro dimostrato dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Che in un messaggio-intervista al Tg1 dalla sua scrivania a Palazzo Chigi ha espresso la linea del governo sull’Afghanistan dopo la fine dell’occupazione militare ventennale degli americani e dei loro alleati. Diversamente dalle proteste contro la presunta fuga di costoro da un paese quindi tradito e restituito ai talebani, egli ha espresso la ragionata convinzione che sia stato seminato abbastanza in due decenni, e a costo di gravi perdite umane,  per potere sperare che, con un sostegno d’altro tipo dell’Occidente, il futuro di quel Paese potrà essere diverso da tanti timori diffusi.  

Titolo di Domani

            Pur con l’accortezza grafica di non aprirci, come si dice in gergo tecnico, dedicandogli la parte bassa della prima pagina, il giornale debenedettiano diretto da Stefano Feltri -solo omonimia, per carità, con Vittorio e il figlio Mattia- ha praticamente accusato Draghi di aver fatto “mancare la voce dell’Italia nella crisi dell’Afghanistan”. Questa voce, si presume, sarebbe mancata sia a livello mediatico sia a livello diplomatico, nei contatti fra i governi, per quanto Draghi avesse tenuto, per esempio,  ad annunciare in quella intervista di avere appena parlato con la cancelliera tedesca Angela Merkel preparandosi alle valutazioni e decisioni che attendono l’Unione Europea, il G7 e il G20.

Piero Ignazi su Domani

            Il titolo di forte denuncia di un’Italia afona è supportato da un articolo del politologo Piero Ignazi che si conclude, quasi orologio o calendario alla mano, così: “Mario Draghi è stato l’ultimo tra i leader europei a intervenire. Emmanuel Macron si era già rivolto ai francesi con un discorso alla nazione e Boirs Johnson aveva riunito più volte il gabinetto di emergenza. Ma soprattutto mancano proposte incisive in grado di coinvolgere la comunità internazionale o almeno i paesi dell’Unione Europea. Da una personalità come l’ex governatore della Bce si attende qualcosa di più di un piccolo  cabotaggio”.

            Su un altro giornale in qualche modo omologo, dal quale non a caso proviene il direttore di Domani, che è Il Fatto Quotidiano, Draghi è stato rimproverato dal direttore in persona Marco Travaglio di avere trascorso il Ferragosto nel suo ritiro in Umbria, fra l’altro alle prese con un macellaio per fortuna non scambiato per un benzinaio, anziché correre verso il fortino di Palazzo Chigi e presidiarlo. In questo goffo attacco al presidente del Consiglio il pungente Travaglio ha trovato il modo, il tempo e soprattutto la voglia, o il coraggio, di difendere l’assente Di Maio dalla Farnesina, trattenutosi invece con amici altolocati del Pd al mare, con tanto di costume ben tirato addosso, mica con le brache ai piedi come nelle vignette dedicategli dal Fatto Quotidiano nei giorni in cui lavorava pure lui, con Grillo in persona, per l’accantonamento di Giuseppe Conte e la formazione del governo Draghi.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Draghi non fa il sorpreso, nè il pentito, nè il furbo sulla questione Afghanistan

Non credo sia solo o soprattutto una questione di carattere o di sistema nervoso, che Mario Draghi ha dimostrato in tutta la sua carriera di avere solidissimo, traendone vantaggi superiori a quelli di recente attribuitigli da certi critici per avere compiuto a Roma gli studi liceali in un istituto gestito dai gesuiti. Di cui non a caso furono allievi  un bel po’  di coetanei destinati anch’essi al successo, per quanto non tutti presunti “figli di papà”. Così il solito Marco Travaglio ha recentemente definito il presidente del Consiglio non essendosi evidentemente accorto, scorgendone la biografia, che egli era orfano di padre  già all’età di 15 anni e di madre all’età di 19.  Pertanto portò avanti i suoi studi e tutto il resto che seguì, nella concezione sbrigativa del direttore del Fatto Quotidiano, solo come “nipote di zia” Andreina, sorella del genitore.

Titolo del Dubbio

Il guaio in qualche modo suppletivo è stato che per liquidare Draghi come “figlio di papà” che “capisce soltanto di finanza” per il resto “non sapendone un cazzo”, testuale, Travaglio ha scelto una manifestazione politica dei “liberi e uguali”, affiancato dall’imbarazzato ministro della Salute Roberto Speranza.  Che deve a un tale presunto incompetente, a dir poco, la conferma al suo posto in tempi di pandemia, dopo l’esperienza nel secondo governo di Giuseppe Conte, e la resistenza a tutti, e non pochi, tentativi di disarcionamento compiuti, a torto o a ragione, dai due Mattei della maggioranza di cui tornerò a scrivere più avanti: Salvini e Renzi.

Dei nervi saldi di Draghi c’è una immagine icastica del 2015, quando l’allora presidente della Banca Centrale Europea, sorpreso a Francoforte dalla irruzione di contestatori durante una conferenza stampa, reagì con gli occhi stranulati e le sole braccia protese in avanti mentre una dimostrante saltava sul tavolo per lanciargli addosso quelli che poi si sarebbero rivelati solo coriandoli. Eppure la sua intervista al Tg1 sulla situazione in Afghanistan dopo la partenza dei contingenti militari alleati e il ritorno dei telebani ha sorpreso anche me, che lo immaginavo a Ferragosto con le mani fra i capelli a leggere i dispacci da Kabul. E ciò mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si godeva il mare nel Salentino col governatore pugliese Michele Emiliano, l’ex ministro Francesco Boccia, entrambi del Pd, mogli o fidanzate. 

Anziché lasciarsi andare come la generalità dei suoi colleghi in Europa e altrove allo sconforto e persino alla disperazione per gli eventi afghani, recriminando contro gli Stati Uniti e la loro precipitosa decisione di lasciare un Paese a lungo occupato militarmente dando l’impressione di fuggire e tradire la fiducia riposta nell’Occidente dalle popolazioni ancora minacciate dai talebani, Draghi ha preferito solidarizzare praticamente con gli alleati d’oltre Oceano anche in questo passaggio difficilissimo. Egli si è richiamato anche ai morti italiani in quelle terre lontane, e ai loro familiari che li piangono ancora, per sottolinearne un “eroismo” per niente vanificato dal clima di resa e di fuga in cui è apparsa finire una guerra di vent’anni. Che, stando ad alcuni critici, avrebbe dovuto o non cominciare per niente o durare ancora tanto da abbattere il primato della storica guerra dei trent’anni, in cui fu dilaniata l’Europa tra il 1618 e il 1648.

Immagini dall’Afghanistan

Alla tentazione di strapparsi le vesti, battersi il petto e vergognarsi delle scelte compiute, derubricandole tutte a fatali errori, Draghi ha preferito opporre la difesa delle cose fatte laggìù, destinate a rimanere radicate nella “società afghana”, ben più forse di quanto in quella stessa società si ritenga in questi giorni di paura o sconforto. D’altronde, gli stessi talebani hanno sinora tenuto più a tranquillizzare che a spaventare, sino ad essere apparsi a Travaglio -sempre lui- dei travestiti da “democristiani”, secondo il titolo di prima pagina del suo giornale. E’ un po’ come quello che è accaduto nel MoVimento 5 Stelle in Italia quando i grillini sono rimasti al governo anche con Draghi, con la Lega, e col partito di Silvio Berlusconi, scambiati perciò per democristiani travestiti, o quasi, dagli integralisti tipo Alessandro Di Battista.

Scrivevo all’inizio, a proposito della linea scelta da Draghi di fronte alla vicenda afghana, che non è solo o soprattutto una questione di carattere o di sistema nervoso. E’ una questione tutta politica. Draghi si è confermato anche in questo un politico più raffinato e al tempo stesso più coraggioso di tanti che vantano una professionalità politica conseguita in chissà quale università specializzata e garantita da chissà quali e quante referenze.

Anziché strapparsi le vesti davanti alla paura gridata da chi è già fuggito dall’Afghanistan e da chi aspira solo a fuggire, il presidente del Consiglio ha scommesso sulla volontà e sulla capacità dell’Unione Europea, di tutto l’Occidente, del G7, del G20 e di ogni altra postazione utile di fronteggiare anche questa crisi e di garantire uno sviluppo e una soluzione pacifica di eventuali nuovi conflitti. Di fronte a tanta fermezza, ripeto, tutta politica e per niente tecnica, come ancora molti si ostinano a considerare il livello d’azione di Draghi, se ne faranno una ragione anche i due Mattei accennati prima: il Salvini che ha già alzato le sue barricate contro gli arrivi in Italia dall’Afghanistan e il Renzi che le ha alzate contro i talebani insediatasi nel Palazzo presidenziale di Kabul, abbandonato dal presidente Ghani in fuga con tanti soldi da non avere potuto riempirne l’areo.  Sono le stesse barricate opposte da Renzi nel 2018 ai grillini usciti vincenti, o quasi, dalle urne e smontate l’anno dopo per sostituire i leghisti nel secondo governo Conte.  

Pubblicato sul Dubbio

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