Il Foglio sputa il nocciolo della ciliegia del direttore contro il centrodestra

            Il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha sputato ieri il nocciolo della sua ciliegia contro il centrodestra. Che pure era lo schieramento a sostegno del quale nacque orgogliosamente quel giornale, fondato da Giuliano Ferrara dopo la breve esperienza di ministro per i rapporti col Parlamento nel primo governo di Silvio Berlusconi, chiamato ancora amichevolmente “l’amor nostro” in redazione.

            Di acqua dalle origini n’è passata sotto i ponti del Foglio, per il quale Berlusconi ha continuato ad avere simpatia anche dopo avere smesso di esserne di fatto l’editore. D’altronde, già prima egli aveva saputo convivere con l’imprevedibilità  non sempre giocosa di Ferrara. Che è di quelli facili a dare consigli e non facili a rassegnarsi alla loro inutilità. E Berlusconi non è certo uno che quando chiede pareri o se li lascia dare si sente poi vincolato ad attenervisi. Non ne volle sapere, per esempio, quando Ferrara gli suggerì di appoggiare una candidatura al Quirinale di Massimo D’Alema. Al quale il Cavaliere in persona telefonò per spiegargli le ragioni di una incompatibilità solo e tutta politica, cui non avrebbe potuto derogare ulteriormente senza perdere il proprio elettorato, avendolo già aiutato ad assumere la presidenza di una commissione bicamerale per la riforma costituzionale. E D’Alema rispose spiritosamente pregando Berlusconi di gridare pubblicamente quella incompatibilità liberandolo dai sospetti procuratigli fra gli elettori di sinistra da quel “Dalemoni” affibbiatogli da Giampaolo Pansa sull’Espresso.

            Ferrara non riuscì a farsi sentire da Berlusconi neppure quando gli consigliò di non schierarsi nel referendum del 2016 contro la riforma costituzionale approvata dal governo di Matteo Renzi. Nel quale lo stesso Ferrara aveva visto e indicato il “royal baby” del Cavaliere di Arcore. Non ci fu verso. Berlusconi, anche a costo di ritrovarsi in campagna referendaria con D’Alema -sì, sempre lui- e addirittura con Beppe Grillo, rimase sul fronte del no per ripicca contro lo sgarbo politico e un po’ anche personale che riteneva di avere subìto con la decisione dell’allora presidente del Consiglio di candidare al Quirinale nel 2015 Sergio Mattarella. E per giunta ricordandone la “schiena dritta” dimostrata dimettendosi da ministro negli anni Novanta, con altri esponenti della sinistra democristiana, contro una legge che regolarizzava, con la Tv commerciale, le tre reti del Biscione.

Titolo del Foglio di ieri

            Acqua passata anche questa, naturalmente, essendosi poi Berlusconi speso moltissimo per apprezzare il Mattarella del Quirinale. L’acqua invece sulla quale Cerasa si è messo a navigare sputando la sua ciliegina contro il centrodestra -peraltro il giorno dopo la rianimazione dell’alleanza tentata dallo stesso Berlusconi ricevendo Giorgia Meloni nella sua villa sarda e facendola incantare davanti alla sua collezione di farfalle- è quella delle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre. Per le quali in città importanti come Milano, Roma e Napoli il centrodestra ha candidato degli impresentabili, secondo il direttore del Foglio-  per le loro ambiguità sui vaccini in tempi di pandemia e per una commistione di ruoli fra politici e magistrati. Fra i quali ultimi in effetti il centrodestra ha scelto la candidata  a vice sindaco a Roma e il candidato a sindaco a Napoli.  “Un centrodestra così forse è meglio perderlo che trovarlo”, ha scritto Cerasa.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il poco o niente che resta della Procura milanese di “Mani pulite”

Titolo del Dubbio

Più guardo quella foto storica, in bianco e nero, dell’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli nella Galleria del Duomo, affiancato dai sostituti Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro, all’epoca delle indagini “Mani pulite”;  più rifletto sulle difficoltà fra le quali si sta concludendo la gestione di quella Procura da parte di Francesco Greco, anche lui tra i sostituiti -allora- di Borrelli, più mi chiedo cosa sia rimasto ormai, non solo per ragioni anagrafiche, di quella stagione. Che pure aveva scatenato reazioni tanto opposte quanto vigorose: dalla paura di un potere declinante, che ci aveva messo del suo, per carità, nella crisi che gli stringeva il collo, e i cortei inneggianti alle manette che scattavano di giorno e di notte ai polsi di indagati per finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione e quant’altro, non tutti destinati  alle condanne, e neppure ai processi.

A segnare la fine della carriera politica del malcapitato di turno non bastavano  le manette, di giorno o di notte che scattassero ai polsi davanti a fotografi e simili sempre così stranamente puntuali sul posto, essendo sufficiente un avviso di garanzia. E neppure esso doverosamente notificato alla persona interessata, di qualsiasi colore e grado politico, da un semplice consigliere comunale al presidente del Consiglio, bastando e avanzando un’anticipazione giornalistica, sparata con l’evidenza e la forza mediatica di una condanna senza appello.

Francesco Saverio Borrelli

Di quella stagione, diciamoci la verità, è rimasto ben poco, se non niente. Borrelli, per cominciare dal vertice di quella mitica struttura giudiziaria, pur essendo riuscito a scalare la Procura della Corte d’Appello di Milano mancata per un pelo proprio alla vigilia di “Mani pulite”, per cui qualcuno scambiò, a torto a ragione, la sua dura gestione delle indagini per una ritorsione contro chi ne aveva ostacolato la candidatura, morì in tempo nel 2019 per fare una clamorosa ammissione. Disse, in particolare, che “non valeva la pena” abbattere una Repubblica per assistere alla corruzione, magari aumentata, nelle successive. E si guadagnò per questo in un libo il ringraziamento dell’ex ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli. 

Gerardo D’Ambrosio

Gerardo D’Ambrosio, il vice di Borrelli succedutogli nel 1999 e andato in pensione nel 2002, fece da ex magistrato una scelta legittima, per carità, ma quanto meno scomoda per un ricordo epico della stagione di “Mani pulite”. In particolare, egli si candidò al Senato nelle liste del partito -l’ex Pci dei democratici di sinistra- fra i pochi, se non l’unico sopravvissuto a quelle indagini. Ed era toccato proprio a lui, D’Ambrosio, togliere praticamente alla sostituta Tiziana Parenti, uscita poi dalla magistratura per farsi eleggere alla Camera nelle liste berlusconiane di Forza Italia, una parte degli accertamenti sul conto svizzero “Gabbietta” di Primo Greganti, che si occupava dei conti del Pci.

Antonio Di Pietro

Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici, dipinto generalmente come l’ariete della Procura milanese per la smania anche dichiarata di “sfasciare” chi gli capitava a tiro, come rivelò lo stesso Borrelli, non aspettò neppure il pensionamento per passare alla politica. Lasciata la magistratura tra sorprese e polemiche, egli si fece eleggere senatore nel collegio rosso e blindato del Mugello, inutilmente contrastato da Giuliano Ferrara a destra e da Sandro Curzi a sinistra. Poi allestì un suo partito, Italia dei Valori, che fu l’unico col quale il Pd pur a vocazione maggioritaria di Walter Veltroni accettò nelle elezioni del 2008 di apparentarsi, concedendogli poi anche di fare gruppo autonomo in Parlamento.

Piercamillo Davigo

Già prima, tuttavia, di lasciare la magistratura Di Pietro era riuscito a guadagnarsi l’attenzione, l’interesse e quant’altro addirittura di Berlusconi, che gli offrì inutilmente nel suo primo governo, nel 1994, il Ministero non certo irrilevante dell’Interno, E a Piercamillo Davigo, un altro sostituto di Borrelli, il Ministero della Giustizia, per fortuna anch’esso rifiutato. Dico “per fortuna” avendo tutti rischiato in quel momento di avere in via Arenula un battutista, quanto meno, inchiodato a torto o a ragione a una battuta, appunto, in televisione sull’assolto equivalente a un colpevole che l’ha fatta franca: non proprio il massimo, diciamo, per un magistrato quale lui era ancora in quel momento. E non è più adesso, in pensione ed ex consigliere superiore della magistratura. Cui peraltro auguro sinceramente di uscire indenne dall’indagine in corso su una violazione di segreto di cui dubito, essendo stato destinatario legittimo, come consigliere superiore della magistratura, di un verbale trasmessogli da un sostituto procuratore di Milano -Paolo Storari- non a caso appena confermato al suo posto proprio dal Consiglio del Palazzo dei Marescialli.

Francesco Greco

Oltre al Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi, che aveva chiesto il trasferimento di Storari, la decisione del Consiglio Superiore ha spiazzato, a dir poco, il capo della Procura di Milano Francesco Greco, un altro della covata di Francesco Borrelli. Ora, in attesa di andare in pensione a novembre, egli dovrà ancora tenersi Storari come sostituto, pur avendone duramente contestato le proteste contro le ritardate indagini sulla presunta loggia massonica rivelata dall’avvocato Piero Amara. In più, Storari nel rapido procedimento avviato contro di lui da Salvi si è guadagnato la solidarietà pubblica di un bel po’ di magistrati ambrosiani.

Gabriele Cagliari
Gherardo Colombo

Della squadra di Borrelli consentitemi infine di ricordare Gherardo Colombo per apprezzarne il disagio, quanto meno, da lui avvertito nel ricorso un po’ troppo frequente alla carcerazione preventiva o cautelare durante le indagini “Mani pulite”. Non mancarono peraltro tragici incidenti, fra i quali il suicidio di Gabriele Cagliari nel 1993, dopo un interrogatorio su cui per fortuna non posso dilungarmi per mancanza di spazio.

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