La giornata delle sardine italiane tra i guai del Tevere e quelli del Tamigi

            Il “Sardina day”, all’inglese, ispirato al manifesto dall’appuntamento che si sono date oggi a Roma le sardine d’Italia spontaneamente, per carità, e festosamente mobilitate da qualche tempo contro il sostanziale rischio di finire nel padellone della destra, sul fuoco tenuto acceso giorno e notte da Matteo Salvini e soci, deve a suo modo fare i conti non col Tevere ma col Tamigi, dopo quello che è avvenuto in Gran Bretagna. Dove la strepitosa vittoria dei conservatori, cioè della destra, è pari solo alla sconfitta della sinistra di più o meno vecchia maniera.

            Il vento arrivato da Londra, diciamo la verità, è più favorevole a Salvini che alle sardine aspiranti a salvarsi dal suo padellone, anche se il leader leghista, pur compiaciuto della vittoria del Tamigi.jpgpremier inglese e del suo partito conseguita per la voglia di lasciare finalmente e davvero l’Unione Europea, si è dovuto affrettare ad assicurare che “noi non abbiamo progetti per uscire dall’euro”. Dove d’altronde neppure gli inglesi erano mai entrati tenendosi ben stretta in tasca la loro sterlina.

            Da furbacchione come sono, nonostante la loro apparente ingenuità tanto apprezzata persino dalla fidanzata di Silvio Berlusconi, spintasi a raccomandarle all’attenzione e alla simpatia del suo attempato compagno, le sardine italiane cercheranno probabilmente di farsi forti proprio dei risultati delle elezioni bandiera britannica.jpginglesi per allertare di più il nostro Bel Paese dai rischi che corre. Sarà per loro una ragione in più per  augurare lunga vita al secondo governo di Giuseppe Conte e alla legislatura già salvata in extremis nella scorsa estate dal presidente della Repubblica, grazie all’improvvisa convergenza fra i grillini, abbandonati dai leghisti, e la sinistra di vario colore di cui sotto le cinque stelle avevano detto sino al giorno prima tutto il male possibile.

            La legislatura deve insomma continuare, secondo le sardine, nonostante il “mercato delle vacche” che sta facendo impazzire il capo ancòra del Movimento grillino Luigi Di Maio. Che, in attesa di qualche soccorso giudiziario esplicitamente sollecitato, è curioso di sapere non quanti parlamentari sia destinato a perdere ma quanto paghi al chilo Salvini quelli che stanno uscendo dai gruppi pentastellati per saltare sul Carroccio e scommettere su un futuro migliore, visto che il presente non dovrebbe avere valore alcuno trattandosi del non comodo passaggio dalla maggioranza all’opposizione.

            La legislatura deve continuare sardinamente, da sardina, nonostante la perdurante, se non crescente impossibilità del pur paziente e professorale presidente del Consiglio, fra un rinvio e l’altro, una precisazione e una smentita, un bisticcio e l’altro, una grana e l’altra, compresa quella appena scoppiata della banca popolare di Bari, di portare indenne il governo alla verifica, o qualcosa del genere, programmata nel prossimo mese per tentarne la rianimazione, anche se Conte ottimisticamente lo chiama rilancio.

 

 

 

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Quel che resta del presepe garantista di Matteo Renzi al Senato

Va bene che siamo in vista del Natale ed è quindi la stagione dei presepi, ma la discussione svoltasi al Senato sui rapporti fra i poteri dello Stato -promossa da Matteo Renzi sull’onda delle indagini riguardanti i finanziamenti della sua attività politica quando ancora faceva parte del Pd, ne scalava il vertice e si difendeva dal cosiddetto fuoco amico di cui si è liberato solo uscendo dal Nazareno e fondando la sua Italia Viva– non mi ha per niente fatto sentire nei panni di qualche ammirato e partecipe zampognaro. Non c’era francamente da festeggiare nessuno sceso dalle stelle.

Innanzitutto non mi è piaciuta per niente quell’aula che si faceva notare più per le assenze che per le presenze, a cominciare dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che ha affidato le redini della seduta alla vice presidente grillina Paola Taverna: degnissima persona, per carità, al netto dei suoi comizi di una volta, quando non nascondeva la voglia di sputare addosso a qualche collega parlamentare che non gli piaceva, come l’allora senatore Silvio Berlusconi, ma credo francamente la più lontana dalla sensibilità garantistica che mi sembrava sottintendere l’accoglienza del dibattito chiesto da Renzi.

Non mi sono governo vuoto 2.jpgpiaciuti nemmeno quei banchi del governo completamente deserti, o disertati, come se all’esecutivo non dovessero e non debbano per principio interessare temi come quelli all’esame dell’aula. Una simile estraneità o neutralità, del resto, era stata smentita nei giorni precedenti dalle critiche formulate dal ministro della Giustizia, in sintonia col Consiglio Superiore della Magistratura, alle reazioni di Renzi alle inchieste che lo riguardano, almeno per ora, indirettamente.

Né mi sono piaciuti, infine, i richiami che considero tardivi dello stesso Renzi a Craxi, Moro e Leone per supportare, diciamo così, le sue forti preoccupazioni per le condizioni alle quali si è ridotta la politica per pavidità, o opportunismo del giocatore di turno, nei rapporti con la magistratura e con la piazza che l’affianca o sostituisce nei processi agli avversari del giorno o della stagione.

Di Craxi il senatore Renzi ha permesso troppo a lungo una vera e propria demonizzazione per essere ora credibile nel portarne il suo celebre discorso alla Camera nel 1992 ad esempio dell’orrore che deve procurare ad una politica degna di questo nome il vuoto che si crea con la confusione dei poteri. Di Craxi ricordavo sino all’altro ieri solo l’aggettivo “diseducativo”, o “non pedagogico”, adoperato da Renzi quando se ne parlava, riducendo quindi anche lui la storia del leader socialista a quella giudiziaria di un latitante indegno di essere ricordato con qualche targa stradale o di piazza, a Firenze e altrove.

Piuttosto, di Craxi l’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio avrebbe fatto meglio a rivendicare una certa eredità o ispirazione nei tentativi, che volentieri riconosco anche a lui, di ammodernare la sinistra e le istituzioni. Tanto volentieri riconosco a Renzi questi tentativi da avere cercato da elettore di aiutarlo nel 2016 votando, e perdendo, nel referendum cosiddetto confermativo sula sua riforma costituzionale, per quanto in alcuni passaggi pasticciata. Sarebbe stato sempre meglio di niente, visto anche come sono andate poi le cose ai fini della governabilità del Paese.

Di Craxi avrebbe potuto ricordarsi Renzi anche quando da presidente del Consiglio, pur rivendicando “il primato” della politica, ha contribuito all’uso distorto, con dimissioni di ministri  a furor di giornali, per sospetti traffici di influenze: una fattispecie di reato che parla da sé.

Non mi ha convinto del tutto neppure il richiamo di Renzi a Moro e al suo rifiuto dei processi di piazza, di cui poi, subito dopo la morte dello stesso Moro, rimase ugualmente vittima secondo lui l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, coinvolto mediaticamente, neppure processualmente, nel cosiddetto scandalo Loochhed:  il nome della società americana che produceva gli aerei da trasporto acquistati per uso militare anche dall’Italia tra voci e accuse di mazzette e simili.

Più che di quei processi di piazza Leone rimase vittima, costretto praticamente a dimettersi sei mesi Leone.jpgprima della scadenza del suo mandato al Quirinale, dell’uso politico che di essi si decise di fare dai partiti, compreso quello dello stesso Leone: la Dc. Che non volle o non seppe resistere, priva com’era rimasta di una guida come quella di Moro, alle pressioni del Pci, componente allora decisiva della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale.

Nel 1978 Renzi aveva solo tre anni, beato lui. Qualcuno dovrà pur decidersi a raccontargli, spiegargli e quant’altro che Leone fu costretto alle dimissioni non per gli scandali contestatigli persino -ahimè- dai radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino, destinati a pentirsene dopo una ventina d’anni, ma per le resistenze da lui opposte alla gestione del sequestro Moro da parte del governo di allora -un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti- e dei partiti che lo sostenevano.

Leone non condivise né la cosiddetta linea della fermezza immediatamente annunciata,  e da lui contestata personalmente Moro.jpgal segretario della Dc Benigno Zaccagnini in un colloquio al Quirinale, né la maniera -tra l’atroce e l’ambiguo- in cui veniva applicata. Egli poi cercò personalmente, per quanto inutilmente a causa di fughe di notizie rivelatesi funzionali solo ai giochi interni alle brigate rosse, di scongiurare l’uccisione di Moro predisponendo la grazia per Paola Besuschio, scelta personalmente dal capo dello Stato fra i 13 “prigionieri”, cioè detenuti per reati di terrorismo, con i quali gli aguzzini del presidente della Dc avevano reclamato di scambiare il loro ostaggio.

Altro che la presunta o reale trattativa fra lo Stato e la mafia per fermare le stragi del 1992 e successive, su cui si stanno ancora celebrando processi, stampando libri e consumando carriere di toghe. E’ il delitto Moro, nel 1978, il buco nero della storia della nostra Repubblica, anche più della orribile strage di Piazza Fontana di cui stiamo celebrando i 50 anni.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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