La danza sotto le cinque stelle e dintorni sul destino giudiziario di Salvini

            La politica, non a caso femminile, è mobile con la donna del Rigoletto. Lo dimostrano gli sviluppi dell’ultimo affare Salvini: quello legato ai 100 migranti e più bloccati per tre notti a fine luglio sulla nave Gregoretti, nel porto di Augusta, e sfociata nella richiesta di un processo contro di lui per sequestro di persona e abuso d’ufficio da parte del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania.

            Diversamente dall’analogo e precedente affare Diciotti, dal nome di un’altra nave della Guardia Costiera, il presidente del Consiglio ha negato, almeno sino ad ora, tramite comunicazioni di Palazzo Chigi agli inquirenti, la copertura necessaria per sottrarre l’ex ministro dell’Interno al processo, previo voto del Senato, per avere operato nell’interesse superiore dello Stato.

            Salvini, nel frattempo passato dal governo alla guida dell’opposizione di centrodestra, ha reagito La Stampa.jpegdicendo di avere ben conservato nei suoi archivi elettronici, diciamo così, le prove dei contatti avuti con Conte ed altri colleghi allora di governo nella gestione della vicenda, anche se non risultano tracce di discussioni avvenute in Consiglio dei Ministri.

            Ma diversamente -ripeto- dall’analogo e precedente affare Diciotti, dall’interno della nuova maggioranza di governo Matteo Renzi, che allora era all’opposizione disciplinatamente all’interno del Pd, ha questa volta annunciato direttamente, in una intervista al Sole 24 Ore, e indirettamente con dichiarazioni dei colleghi del suo nuovo partito, Italia Viva, che le carte pervenute dalla magistratura alla competente commissione del Senato vanno lette -vivaddio- per potersi fare un’opinione, esprimerla e votare, prima in commissione e poi in aula. Dove, ripeto, sia in commissione sia in aula, i numeri di Renzi per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra sono decisivi, per quanto forse più modesti di quanto l’ex presidente del Consiglio non avesse sperato uscendo dal Pd all’improvviso, dopo avergli fatto cambiare idea e linea politica sul tema dei rapporti con i grillini, spianando la strada al secondo governo Conte.

            Certo, contro Salvini e la sua comprensibile aspirazione a sottrarsi al processo, nonostante dichiarazioni e comizi di sfida che pronuncia ogni giorno, apparentemente convinto che la parte della vittima possa giovargli nella campagna elettorale permanente in cui è impegnato, gioca il pollice verso ostentato dal suo ex alleato grillino Luigi Di Maio. Che lo sfotte, come cercò di fare anche l’altra volta, con l’affare Diciotti, prima di ripiegare sulle sponde per lui inedite del garantismo, a farsi processare davvero, come un banale sequestratore di persone, per quanto doverosamente soccorse in mare e al riparo sicuro di una nave militare italiana, in attesa solo degli accordo per una loro distribuzione fra più paesi dell’Unione Europea.

            Ma la politica, come la donna- ripeto- del Rigoletto, è cambiata anche sotto le cinque stelle del capo ancòra in carica e dirottato al Ministero degli Esteri. Sostenuto con crescenti e visibili difficoltà da Beppe Grillo, fra un’incursione e l’altra sul terrazzo d’albergo romano affacciato sui ruderi dei Fori Imperiali, Luigi Di Maio controllla sempre meno i gruppi parlamentari del suo movimento. Dove c’è più voglia di farlo fuori subito che di attendere il momento dell’abbandono promosso fra le righe e quant’altro dal “garante”, “elevato” e quant’altro del partito che non vuole chiamarsi così ma che per confusione è anche peggiore dei partiti ancora muniti di questo nome.

            Non è pertanto da escludere per niente che le occasioni del voto sul processo a Salvini, fra commissione e aula del Senato, previste tra gennaio e febbraio, si tramutino nelle idi anticipate di marzo per Di Maio, se non per tutto il governo dove lui d’altronde si muove da qualche tempo non sapendo da chi doversi guardare di più.

           

Come zoppica il tentativo di Conte di scaricare Salvini nell’affare Gregoretti

A inchiodare Matteo Salvini, sia pure con chiodi per ora di carta, sulla croce del processo per sequestro di persona, abuso d’ufficio e non so cos’altro, chiesto dal tribunale dei ministri di Catania per i 131 migranti bloccati a fine luglio nel porto di Augusta sulla nave Gregoretti, della Guardia Costiera, sarebbe una comunicazione già partita da Palazzo Chigi. Della quale si è affrettato a farsi forte nella polemica politica con l’ex alleato di governo il capo ancòra delle 5 Stelle e ministro degli Esteri Luigi Di Maio per contestare a Salvini di aver fatto tutto di testa sua con quel blocco, senza la  copertura del governo fornitagli l’anno scorso, in occasione di una vicenda analoga occorsagli con la nave Diciotti, anch’essa della Guardia Costiera. E risolta dal Senato col no al processo.

La giunta senatoriale delle immunità, presieduta di diritto da un esponente dell’opposizione, in questo caso da Maurizio Gasparri,  approfondirà sicuramente la questione prima di votare, il 20 gennaio, e formulare all’assemblea di Palazzo Madama la sua proposta di accoglienza o rigetto dell’autorizzazione al processo. Si vedrà naturalmente con quale tipo di maggioranza, e di sorpresa.

Al di là delle precisazioni e smentite già opposte dall’avvocato ed ex ministro leghista Giulia Bongiorno, che si è subito assunta la regìa della difesa di Salvini, una circostanza già appare nella sua assoluta, incontrovertibile singolarità, a prescindere o al netto, come preferite, delle simpatie o antipatie che potrà Conte 2 .jpegprocurarsi l’ex titolare del Viminale con i suoi abituali atteggiamenti e toni da sfida, di una intensità inversamente proporzionale alle distanze che lo separano dall’appuntamento elettorale di turno. Che stavolta, con le votazioni regionali del 26 gennaio in Calabria e in Emilia-Romagna, rischia di accavallarsi con la fase conclusiva e decisiva del percorso parlamentare della richiesta giudiziaria partita da Catania.

La circostanza è quella rivelata, sullo spinosissimo terreno della gestione degli sbarchi e, più in generale, del fenomeno migratorio, dal presidente del Consiglio in persona GiuseppeConte 3 .jpeg Conte. Che, sfiancato dalle continue polemiche  col suo allora e ancora per un po’ vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, in un momento di spontaneità scambiato da qualcuno anche per una gaffe di Stato, si lamentò pubblicamente  nella scorsa estate delle ore trascorse al telefono nei week con i suoi omologhi europei. Ai quali chiedeva “il piacere personale” di prendersi in carico una parte dei migranti trattenuti sulle navi di soccorso dal blocco dei porti italiani disposto dal Viminale a tutela dei confini, della sicurezza e quant’altro.

In quel piacere “personale” rivelato, vantato e quant’altro dal capo del governo c’era un po’ tutto: non solo la stanchezza, magari anche le preoccupazioni espresse di volta in volta a Conte dal presidente della Repubblica, ma soprattutto l’ammissione di una situazione paradossale e scandalosa, diciamolo pure, di una comunità internazionale, cioè l’Unione Europea, incapace e nei fatti indisponibile, al di là delle parole di apertura apparente, a farsi carico spontaneamente, rapidamente e decentemente di un fenomeno scaricato sulle spalle, e sulle coste italiane, solo dalle circostanze naturali.

Il racconto del presidente Conte vale, anche ai fini del processo che torna a incombere sul collo dell’ormai ex ministro dell’Interno, e ora solo principale oppositore del governo, più di dieci, cento, mille sedute del Consiglio dei Ministri per certificare la natura complessa, multilaterale e quant’altro di una questione maledettamente pasticciata. Che, codice alla mano, può anche permettere ad un pubblico ministero o ad un giudice delle indagini preliminari, come si configura il cosiddetto tribunale dei ministri, di ipotizzare un sequestro di persone. Ma sarebbe pur sempre un curioso sequestro: di persone regolarmente soccorse, assistite, visitate da curiosi e non, trattenute a bordo di navi sicure solo per il tempo necessario a stabilirne la destinazione, non certo verso i luoghi di prigionia e tortura da cui quella gente proveniva.

Tutto questo credo che possa e debba essere detto con tutta onestà, senza la pretesa -ci mancherebbe- di insegnare ai magistrati il loro mestiere nè al governo e a chi lo guida il loro, né di prenotarci al prossimo comizio di Salvini o manifestazione similare, magari all’insegna di diversi -presumo- dalle sardine. Basterebbe parlarne, e agire di conseguenza, rinunciando ai soliti interessi di bottega della politica e della campagna elettorale di turno. Cioè, senza specularci sopra.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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