Dietro, di lato, sopra e sotto la grazia presidenziale a Umberto Bossi

            Per quanto malmessa, la politica è ancora capace di riservare qualche bella sorpresa, specie quando dai piedi dei partiti e delle piazze essa passa nelle mani degli uomini ai vertici delle istituzioni, stavolta in quelle del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che non ha Corriere su Bossi.jpgesitato a concedere Mattarella.jpgla grazia al senatore Umberto Bossi, l’ormai vecchio -e malandato pure lui- fondatore della Lega, risparmiandogli l’anno e quindici giorni da scontare ai servizi sociali per la condanna definitiva rimediata nell’autunno scorso, avendo vilipeso l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano negli ultimi giorni del 2011. Allora gli aveva dato del “terrun” in un comizio nel Bergamasco, lasciando o addirittura incoraggiando l’uditorio a fischiare e spernacchiare il Presidente, con la maiuscola dovutagli anche per dettato costituzionale. La si ritrova infatti in tutti gli articoli della Costituzione in cui si parla di lui.

            Il senatore ha avuto il buon senso e l’umiltà, una volta processato e condannato, di scusarsi e di chiedere Bossi oggi.jpgla grazia, senza stare lì a discutere dell’articolo del codice penale, contestato invece da altri, e forse qualche volta pure da lui, a tutela della onorabilità del capo dello Stato. Napolitano, Napolitano.jpgormai presidente emerito della Repubblica e senatore pure lui, ma di diritto e a vita, si è affrettato a dare il suo consenso, non avendo motivo -ha detto- di risentimento per il fondatore ormai del più antico partito rappresentato in Parlamento. Lo è diventato dopo la scomparsa di tutti gli altri un po’ per suicidio -bisogna ammetterlo, visti gli errori compiuti- e un po’ perché ghigliottinati dalle Procure della Repubblica nella bufera di Tangentopoli. Dove pure la Lega, a dire la verità, lasciò qualche impronta, ma essendo ancora in culla fu risparmiata quanto meno dalla giustizia mediatica, a volte più feroce ancora di quella ordinaria, diciamo così. Forte anche di quella generosità, poi Bossi si sarebbe lasciato andare in una gestione  un po’ troppo familistica del suo partito, con annesse e connesse complicazioni giudiziarie.

            Va detto, non per assolverlo ma per comprenderlo, che quella sera in cui rimproverò a Napolitano anche il nome che portava qualche ragionamento di risentimento personale Bossi, in fondo, ce l’aveva. Sino a pochi mesi prima egli era ancora ministro delle riforme per il federalismo nell’ultimo governo dell’alleato e ormai amico strettissimo Silvio Berlusconi. Che forse esagera a parlare ancora di colpo di Stato per le dimissioni presentate otto anni fa sull’onda di una gravissima crisi finanziaria, non foss’altro per il volontario concorso dato a quell’epilogo vantandosi del suo successore Mario Monti, sino ad apporre con entusiasmo la controfirma neppure necessaria, in teoria, alla sua preventiva nomina a senatore a vita da parte del presidente della Repubblica: preventiva rispetto al conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio all’ex commissario europeo. Ma sicuramente qualcosa si era svolto in modo anomalo in quell’avvicendamento fra un Berlusconi pur deteriorato politicamente di suo dopo la rottura con Gianfranco Fini e un Monti di cui si lodavano il loden che usava indossare e  il fatto che la maggioranza delle mamme tedesche  avrebbe preferito averlo come genero, tanto egli  era riuscito a diventare popolare da quelle parti così sospettose dei conti italiani gestiti dal governo del Cavaliere.

          Di quell’anomalia si accorse, e ne avrebbe poi parlato anche un ministro americano del Tesoro riferendo  dei contatti avuti in quei tempi burrascosi con gli omologhi dell’Unione Europea.

          I maligni, mai inoperosi né nei palazzi del potere né nelle redazioni dei giornali, hanno visto o intravisto nella generosità di Mattarella e del suo predecessore nei riguardi di Bossi qualcosa di somigliante Salvini.jpgalla nostalgia o alla solidarietà di fronte ai cambiamenti intervenuti nella Lega sotto la guida di Matteo Salvini. Di cui si è appena appresa peraltro la decisione di improvvisare per il 21 dicembre, a vantaggio della Lega col suo nome,  un congresso per commissariare e liquidare la vecchia Lega Nord di cui Bossi è presidente a vita, non si sa, a questo punto, se più sua  -di vita- o del movimento ormai in liquidazione. A pensare male, diceva la buonanima di Giulio Andreotti, si fa peccato ma s’indovina.

 

 

 

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Il pasticcio della prescrizione ha un padre fiero e una madre abusata: Bonafede e Bongiorno

In attesa di vedere se e come la maggioranza giallorossa riuscirà a trovare in Parlamento a tempo debito un’intesa sul documento che dovrebbe permettere al presidente del Consiglio di partecipare in sede comunitaria alle decisioni sul controverso meccanismo di stabilità  o fondo salva-Stati, salgono di tono all’interno della coalizione di governo, e fra una parte di essa e l’opposizione di centrodestra, sulla nuova disciplina della prescrizione Bonafede.jpgche scatterà il 1° gennaio prossimo. I cui effetti, non riguardando i processi in corso ma quelli per i reati da compiere da quella data in poi, hanno reso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte un po’ impermeabile alle proteste al pari del guardasigilli Alfonso Bonafede, convinti entrambi che vi sia tutto il tempo per interventi correttivi.

Contestata invece da fior di giuristi, costituzionalisti e avvocati, ricorsi anche allo sciopero e ad assemblee fuori e dentro i tribunali, la riforma ha già prenotato nel codice il blocco, cioè la soppressione, della prescrizione al momento del giudizio di primo grado. E ciò a prescindere dall’applicazione finalmente concreta e vincolante della “ragionevole durata” del processo stabilita dall’articolo 111 della Costituzione con una modifica risalente -pensate un po’- a vent’anni fa. Durante i quali l’Italia si è guadagnata in Europa il primato costoso, sotto tutti i punti di vista, delle censure per l’eccessiva e per niente ragionevole lunghezza dei processi.

Con la nuova disciplina il primato diventerebbe mondiale. Si realizzerebbe, anche per un imputato assolto in primo grado con una sentenza impugnata dall’accusa, il fenomeno del processo a vita o dell”ergastolo del processo”, secondo la drammatica ma azzeccata espressione coniata dal sociologo ed ex parlamentare di sinistra Luigi Manconi, noto per una misura di sincero garantismo un po’ controcorrente dalle sue parti politiche, dove sono generalmente garantisti a corrente alternata, secondo i casi personali o le circostanze politiche, per non chiamarle convenienze.

Voluta ad ogni costo dai grillini, durante l’esperienza del governo gialloverde con i leghisti, nella cosiddetta legge spazzacorrotti; criticata persino dal Consiglio Superiore della Magistratura ma ugualmente promulgata undici mesi fa dal presidente della Repubblica, e dello stesso Consiglio Superiore, con l’eroica speranza che nel frattempo la maggioranza volesse e sapesse riformare il processo penale per abbreviarne davvero la durata, i nodi della soppressione affrettata della prescrizione sono impietosamente arrivati  tutti al pettine.

I grillini, confortati dal presidente del Consiglio fiducioso nel solito compromesso all’ultimo momento e convinti di avere piantato nell’ordinamento giudico una bandiera con le loro mitiche cinque stelle, sono contenti come una Pasqua. E scambiano tutti gli avversari o semplici critici, nella maggioranza e all’opposizione, che reclamano il rinvio della nuova disciplina al momento in cui saranno definiti i tempi davvero “ragionevoli” dei processi, per complici dei delinquenti di ogni risma, o – sul piano politico- del solito e odiato Silvio Berlusconi. Che rimane ai loro occhi il prototipo, diciamo così, del male, pur all’età che ha, con i debiti con la giustizia regolarmente pagati, col ruolo che ancora gli conferiscono liberamente gli elettori e con una qualità di frequentazioni internazionali che i suoi avversari sono costretti a invidiargli.

Nello spettacolo delle proteste e delle recriminazioni il ruolo più scomodo e imbarazzante, bisogna dirlo con chiarezza e forza, è quello dei leghisti, senza il cui consenso, la cui tolleranza, la cui disinvoltura -chiamatela come volete- mai e poi mai i grillini sarebbero  riusciti a infilare come una supposta la sostanziale e incondizionata soppressione della prescrizione nella legge “spazzacorrotti”.

A carico dei leghisti, il cui capogruppo alla Camera Riccardo Molinari ha appena accusato il Pd di Molinari.jpgnon avere il coraggio di contrastare davvero la posizione irremovibile del Movimento 5 Stelle, avendo contribuito a negare l’urgenza ad un intervento correttivo proposto dai forzisti, gioca come aggravante la qualità della persona delegata da Salvini nel governo gialloverde ad occuparsi di questa vicenda, E’ l’avvocato di grido e di grinta, allora ministra della funzione pubblica, Giulia Bongiorno. Che giustamente, con l’esperienza professionale che si ritrova, definì allora, e continua a definire oggi, “una bomba atomica” quella imposta dai grillini. Ma per lealtà o obbedienza politica anche lei dovette fare buon viso a cattivo gioco e scommettere -ahimè- sulla ragionevole e successiva disponibilità degli allora alleati di governo a disinnescare la bomba  al momento giusto.

 

 

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