L’infortunio di Berlusconi al Senato: Ignazio La Russa eletto presidente a suo dispetto

Berlusconi al Senato con Licia Ronzulli

Al Senato, in apertura della diciannovesima legislatura, Silvio Berlusconi si è presa, ma al rovescio, tutta la scena. Partito col proposito di far mancare l’elezione di Ignazio La Russa a presidente ordinando, o facendo ordinare, l’astensione dei suoi per fargli mancare i 104 voti necessari, ma riservandosi il diritto personale di derogare all’ordine votando, non si sa bene però come, l’ex presidente del Consiglio si è trovato prigioniero della sua trappola. O del suo “teatrino”, come una volta lui stesso chiamava la politica fatta dagli altri disprezzandola.

Il voto di Ignazio La Russa al Senato

Ignazio La Russa, toltasi peraltro anche la soddisfazione di affrontarlo in un battibecco nell’emiciclo di Palazzo Madama, e di fargli perdere la pazienza sbattendo una penna sul banco, ha ottenuto dall’opposizione i voti mancatigli da Forza Italia. Ha ringraziato, se li è tenuti ben stretti, si è insediato con un discorso, diciamo così, abbondante, o largo, e si è goduto a distanza -come Giorgia Meloni dalla Camera- lo spettacolo delle opposizioni benemerite, elogiate anche dalla candidata a Palazzo Chigi. Opposizioni che si nascondevano dietro l’anonimato dello scrutinio segreto, felici di avere dimostrato senza grande sforzo -va detto- l’insufficienza della maggioranza, sulla carta, di centrodestra uscita dalle urne. Meglio per loro, francamente, non poteva andare, né peggio per il centrodestra e, più in particolare, per Berlusconi all’esordio del mestiere  di “regista”, garante e quant’altro assegnatosi -ricordate?- nel ritorno al Senato dopo nove, lunghi anni di assenza, scortato questa volta in aula da Licia Ronzulli rigorosamente in rosso evidente, diciamo così.

Giorgia Meloni alla Camera con Giancarlo Giorgetti

Ora, senza voler ipotecare nulla più di tanto, e farci anche noi prigionieri di un teatrino, non resta che attendere gli sviluppi della legislatura, il completamento degli organi istituzionali, le consultazioni di rito del paziente presidente della Repubblica, che Ignazio La Russa sostituirà in caso di impedimento, e le trattative -finalmente quelle vere, non finte dei giorni scorsi- per la formazione del nuovo governo: il primo prevedibilmente a guida femminile nella storia d’Italia. Almeno su questo primato la Meloni può ancora contare, oltre che sul probabile ministro dell’Economia: il leghista molto anomalo o particolare Giancarlo Giorgetti, scortato nei suoi movimenti a Montecitorio da una folla di giornalisti, amici e curiosi che una volta davano la misura di una leadership autentica, non solo percepita.

Ripreso da http://www.startmag.it

Cronache semiserie di apertura della nuova legislatura

Alla faccia dell’ottimismo che -chissà perché- Giorgia Meloni ha voluto ostentare andando da Silvio Berlusconi, nella sua villa grande sull’Appia Antica, pensando forse di essere raggiunta lì da Matteo Salvini e di chiudere un accordo nel centrodestra quanto meno per un avvio ordinato della nuova legislatura, con candidature ben difinite e concordate alle presidenze delle Camere finalmente insediate. Ma Salvini naturalmente si sarebbe risparmiata questa fatica.

Il ritorno di Berlusconi al Senato
Vignetta del Foglio

La stessa festa di Berlusconi -diciamo la verità- per il suo ritorno al Senato move anni dopo esserne stato cacciato con l’applicazione retroattiva di una legge che ancora oggi Il Foglio si è giustamente tolto la soddisfazione di denunciare  con una vignetta che vale dieci editoriali, è stata rovinata dalle maledette circostanze non dico della lotta politica ma della rissa, delle beghe più da cortile che da corte. 

La vignetta del Corriere della Sera

Emilio Giannelli sulla prima prima del Corriere della Sera ha affondato la sua matita come un coltello nel burro rappresentando sarcasticamente il Cavaliere nella “registrazione” al Senato, appunto, non come l’ex presidente del Consiglio tornato in qualche modo al suo posto, ma come l’”amico della Ronzulli” perfidamente indicato al funzionario di turno da una signora informata delle ultime cronache politiche. Che hanno assegnato a Berlusconi il ruolo contingente dell’estremo difensore del ruolo e della carriera della senatrice Licia Ronzulli, appunto, non sufficientemente apprezzata -pare- dalla candidata a Palazzo Chigi, ma con un certo contenzioso alle spalle aache in Forza Italia. 

Titolo del Giornale
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

Francamente, è persino inutile o controproducente prendersela col livore abituale di Marco Travaglio e simili, com i suoi fotomontaggi, con le allusioni urticanti e tutto il resto del repertorio antiberlusconiano del Fatto Quotidiano quando lo stesso Berlusconi vi si presta con una gestione a dir poco inappropriata dei suoi rapporti con alleati e amici. O quando lo stesso Giornale di famiglia non ha potuto fare a meno di uscire oggi con questo titolo: “Il Cavaliere è tornato, il centrodestra quasi”  

Sergio Stajno sulla Stampa

Manca solo di doversi riconoscere nel vecchio Sergio Stajno, sulla Stampa, che praticamente si chiede se alla fine la Meloni per fare davvero il suo primo governo, dopo avere vinto a mani basse le elezioni del 25 settembre, non debba chiedere l’aiuto al Pd malmesso di Enrico Letta. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La rottamazione galeotta di tutti quegli scranni a Montecitorio

Titolo del Dubbio

La decisione del presidente uscente della Camera Roberto Fico di fare disattivare 230 postazioni nell’aula di Montecitorio, dove siederanno da domani non più 630 ma 400 deputati, non era scontata. E si presta, volente o nolente, ad una deludente interpretazione, o previsione sui propositi riformistici di quel che è rimasto dei grillini nel nuovo Parlamento: abbastanza per far perdere la testa non dico a Giuseppe Conte quanto a a quelli che, sotto le  5 stelle e dintorni, ne sostengono la virtuale vittoria sul fronte dell’opposizione.

Ha voglia il segretario del Pd Enrico Letta, col suo 19 per cento dei voti contro il 15 dei grillini, di rivendicarne “la guida” con tutti gli aggettivi del caso: intransigente, costruttiva, di piazza e quant’altro. I tifosi di Conte, a cominciare da quelli che affollano lo stesso Pd reclamando una ripresa dei rapporti interrottisi con la fiducia negata al governo di Mario Draghi nel tratto finale della scorsa legislatura, si sono messi in fila per un congresso che si vedrà se più di rifondazione o di liquidazione. Essi avvertono che il rosso dell’avvocato pugliese splenda più di quello sbiadito del Nazareno. Dove peraltro hanno perso anche il senso dell’orientamento fisico, visto che hanno appena lasciato la piazza romana del Popolo, riempita da Maurizio Landini, alla furbesca e tempestiva incursione di Conte, appunto, spintosi sin sotto il palco  per congratularsi con l’oratore e riconoscersi nella sua agenda: altro che quella di Draghi  sulla quale aveva scommesso Enrico Letta  in campagna elettorale prima d’accordo, fra baci e abbracci, e poi in concorrenza col polo, pur non riconosciuto dalla Cassazione, di Carlo Calenda e Matteo Renzi.  Non in piazza, forse ancora troppo accaldata in questo autunno anomalo, ma direttamente alla sede nazionale della Cgil aveva deciso di andare col ponentino il segretario del Pd Enrico Letta nell’anniversario della profanazione compiuta da dimostranti di destra sotto il naso delle forze dell’ordine. 

A pensarci bene, quelle duecentrenta postazioni di Montecitorio disattivate col cacciavite dal personale di servizio, ed esibite in una foto finita un pò su tutti i giornali,  avrebbero potuto essere lasciate come auspicio di un completamento, finalmente, della riforma costituzionale imposta dai grillini agli alleati di turno nella diciottesima legislatura con una drastica riduzione dei seggi parlamentari. Si sarebbe lasciato tutto, o quasi, lo spazio necessario ai duecento senatori elettivi, e i pochi a vita ereditati dal vecchio sistema, per consentire un maggiore ricorso alle sedute congiunte di Camera e Senato, in una ridefinizione dei compiti oggi perfettamente uguali, e ripetitivi, dei due rami del Parlamento. Se n’è parlato e scritto tanto negli anni e mesi passati pensando, per esempio, alle fiducie congiunte dei deputati e dei senatori, dopo tanti governi inciampati sul diverso passo, diciamo così, delle due Camere.  

La festa dei grillini davanti a Montecitorio per la riduzione dei seggi parlamentari

Ma figuriamoci se per la testa degli aspiranti statisti orfani della “centralità” conquistata nella scorsa legislatura con quel 32 e rotti per cento di voti investito in tutte le combinazioni possibili e immaginabili, poteva passare un’idea del genere per dare un senso compiuto ad una riforma pensata solo come una punizione della casta, una sforbiciata all’ingordigia poltronara e allo spreco sistemico. 

Coraggio, onorevoli signori e signore. Ora che le avete disattivate, demolite pure nel prosieguo della diciannovesima legislatura le postazioni superflue di Montecitorio. Dove, del resto, se passasse l’elezione diretta del presidente della Repubblica, come proposto per sommi capi dalla destra uscita vincente dalle urne, deputati, senatori e delegati regionali non avrebbero più motivo di ritrovarsi insieme ogni sette anni, salvo incidenti di percorso, per scegliere il capo dello Stato. 

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