Gorgia Meloni ottiene da Mattarella una specie di acconto dell’incarico di presidente del Consiglio

La ministra francese Laurence Boone

Sergio Mattarella avrà pure abusato del Pd, come gli ha praticamente rimproverato Enrico Letta attribuendo la causa della sconfitta elettorale alle troppe responsabilità di governo assunte in anni di emergenze anche per rispondere alle larghe intese, solidarietà nazionali e simili via via raccomandate dal Quirinale anche prima di mandare a Palazzo Chigi Mario Draghi, ma gli va riconosciuto il merito di avere saputo e voluto reagire per primo all’abuso, chiamiamolo così, di vigilanza  o preoccupazione europea compiuto dalla ministra francese Laurence Boone con dichiarazioni di cui Giorgia Meloni, spalleggiata appunto da Mattarella, ha preteso e ottenuto riparazioni a Parigi. 

Titolo della Nazione

Condizionato dalla inagibilità, tuttora, delle Camere rinnovate col voto del 25 settembre, in attesa del cui insediamento anche lui è costretto a starsene alla finestra, col suo intervento di protesta e di richiamo immediatamente corrisposto dal presidente francese Emmanuel Macron il capo dello Stato italiano ha  praticamente concesso alla vincitrice delle elezioni una specie di acconto dell’incarico di presidente del Consiglio. E con ciò ha anche riempito metaforicamente di contenuto il lavoro preparatorio e fluido della formazione del governo attribuitosi dalla stessa Meloni con tanto di orari di ufficio a Montecitorio. 

Alessandro Sallusti su Libero
Titolo di Libero

Forse è un pò esagerato quel tre a zero sparato da Libero in prima pagina a favore della Meloni, appunto, sulla Francia della signora Boone. E lo stesso direttore di Libero, Alessandro Sallusti, si è lasciato probabilmente prendere troppo la mano dal patriottismo, se no dal tifo politico, quando ha rivelato la confidenza fattagli da un amico, e provata con tanto di elettronica, che la Meloni già alle ore 5.50 è in piena attività messaggistica di candidata alla guida del governo. Sta “sul pezzo”, ha scritto Sallusti come i giornalisti dicono di se stessi. La Meloni, peraltro, lo è davvero avendo imparato il mestiere al Secolo d’Italia, il quotidiano ufficiale del MoVimento Sociale e partiti indotti. 

Naturalmente stare sul pezzo non basta. E di problemi la Meloni ne sta incontrando, a cominciare dal “suo” centrodestra, dove non è per niente oro tutto ciò che luccica. E -va detto anche questo- non ne luccica molto col terremoto che quel 26 per cento di voti raccolto dai fratelli d’Italia ha provocato in Forza Italia e nella Lega, che ne hanno fatte le spese. La politica, del resto, non è notoriamente un pranzo di gala, anche se i ricevimenti si sprecano. 

Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano

Le tensioni esistenti nel centrodestra, dove peraltro Giorgia Meloni è accusata anche da suoi amici o fratelli di partito di corteggiare troppo tecnici piuttosto che politici per le postazioni di governo più delicate, hanno avuto il loro peso anche  nelle difficoltà incontrate dalla candidata a Palazzo Chigi a raccogliere adesioni alle sue offerte più o meno esplicite. Vi ha appena accennato sul Fatto Quotidiano il fondatore ed ex direttore Antonio Padellaro scrivendo: “Sarebbe troppo facile parlare di nemesi della poltrona a leggere dei cortesi rifiuti in serie che sta ricevendo Giorgia Meloni nel suo tentativo di appioppare le poltrone migliori ad alcuni dei cosiddetti “Migliori”, con la maiuscola usata in modo sarcastico da Marco Travaglio quando sbertuccia Draghi e i suoi ministri. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Un clamoroso Enrico Letta rappresenta il Pd come vittima del Quirinale

Giorgia Meloni
Dalla prima pagina del Dubbio

Fra gli argomenti opposti  in campagna elettorale dal Pd alla riforma presidenzialista proposta da Gorgia Meloni, che pure si era affacciata già negli anni precedenti con aperture anche da sinistra, per esempio nella commissione bicamerale presieduta da Massino D’Alema, ci fu quello, in particolare, del segretario Enrico Letta che esortava a non rimettere in discussione un’istituzione che aveva dato buona prova di sé: la Presidenza della Repubblica, appunto. Che con l’elezione indiretta del capo dello Stato, da parte del Parlamento e di una delegazione di consiglieri regionali, aveva funzionato in modo eccellente come elemento di garanzia e, insieme, di propulsione del sistema. 

Più volte, in effetti, di fronte ad emergenze e a inceppamenti partitici e parlamentari, il presidente della Repubblica aveva saputo trovare e proporre soluzioni: l’ultimo, in ordine di tempo, il ricorso alla maggioranza atipica del governo di Mario Draghi nella impossibilità di sciogliere i nodi della crisi del secondo governo di Giuseppe Conte col ricorso anticipato alle urne ancora in piena pandemia. 

Proprio quel passaggio, purtroppo interrotto anzitempo, sia pure di pochi mesi rispetto alla scadenza ordinaria della legislatura, sembrò calzante nel ragionamento di Enrico Letta. Fra tutti i partiti di quella maggioranza il Pd era stato il più orgogliosamente allineato, tanto da sacrificarle  alla fine il rapporto con le 5 Stelle coltivato da Nicola Zingaretti nella convinzione che fosse essenziale per contrastare il vento favorevole che già soffiava sulle vele del centrodestra. 

Sergio Mattarella
Giorgio Napolitano

Ebbene, tutto questo nel giro di pochi giorni, quasi senza accorgersene, con un repentino cambiamento di giudizio, e di umore, è stato buttato alle ortiche dal segretario del Pd individuando la ragione della sconfitta politica e, più in generale, della crisi del partito del Nazareno  nella pratica del senso di responsabilità ogni volta che gli era stato chiesto dal capo dello Stato di turno di farci carico della governabilità del Paese: con Mario Monti nel 2011, su richiesta di Giorgio Napolitano al Quirinale, con lo stesso Enrico Letta nel 2013, sempre su richiesta di Napolitano, con Paolo Gentiloni nel 2017, su impulso anche di Sergio Mattarella dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale di Matteo Renzi, col secondo governo Conte nell’autunno del 2019, e col già ricordato Draghi nel 2021, sempre con Mattarella al Quirinale. 

La vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno di ieri sulla direzione del Pd

In questa sequenza di fatti, e di penalizzazioni elettorali subite dal Pd, pur nato nel 2017 con la cosiddetta e famosa “vocazione maggioritaria” del suo primo segretario, Walter Veltroni, c’è qualcosa che assomiglia terribilmente a un processo al Quirinale. Di fronte al quale mi chiedo con una certa apprensione cosa pensi non tanto l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ormai defilatosi alla sua veneranda età, quanto il presidente in carica col suo secondo mandato, Sergio Mattarella. Che, ad occhio e croce, pur sapendolo capace di autoironia, di cui anzi egli ha avuto più volte modo di compiacersi consigliandone anche ai suoi interlocutori, temo non stia gradendo in questi giorni la rappresentazione che si potrebbe farne di un presidente  che ha sacrificato troppo il partito di provenienza, anche se non più di appartenenza. 

E’ vero che accade più spesso di dover chiedere sacrifici agli amici piuttosto che agli avversari, ai familiari piuttosto che agli estranei, ma -Dio mio, sembra dire in questi giorni Enrico Letta guardando verso il Quirinale- ci deve pur essere un limite alla generosità. Che il segretari del Pd ha mostrato di considerare ormai raggiunto, anzi superato, nel momento in cui, pur da dimissionario e da non disponibile a ricandidarsi al congresso, ha detto mai più a governi  di emergenza o simili, mai più a larghe o larghissime intese, mai più alla rinuncia ad una opposizione vantaggiosa senza un preventivo passaggio elettorale. 

La diciannovesima legislatura deve ancora cominciare, con l’insediamento delle  Camere nuove e ristrette, ma il tipo di rapporto almeno del Pd col Quirinale sembra cambiato. E mancano più di sei anni alla scadenza del secondo mandato di Mattarella.  A pensarci bene, salvo improbabili sorprese da parte di un presidente pazientissimo, non è una novità da poco. 

Pubblicato sul Dubbio

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