Sopralluogo nei due cantieri aperti della politica dopo le elezioni

Matteo Salvini

Due sono i cantieri politici aperti in attesa dell’insediamento delle Camere, dell’elezione dei loro presidenti, della composizione dei gruppi, delle consultazioni di rito del capo dello Stato e delle sue valutazioni e decisioni in ordine alla formazione del governo. Un cantiere è appunto quello del governo, dove la protagonista è stata già indicata dagli elettori ed è naturalmente Giorgia Meloni. Che si reca diligentemente ogni giorno al lavoro, riceve, ascolta, telefona, risponde, sfugge con battute laconiche a chi cerca di strapparle notizie, o solo sensazioni. Nel complesso si avverte tuttavia l’impressione che i giornali la rappresentino più avanti di quanto non sia davvero nella preparazione della squadra, senza voler dire con questo che le difficoltà siano maggiori di quelle che appaiono assistendo, in particolare, al braccio di ferro raccontato dalle cronache fra un Matteo Salvini smanioso di tornare al Viminale, spintovi anche da chi non lo sopporta più neppure come capo della Lega dopo tanta dissipazione di credito elettorale in così pochi anni, e una Giorgia Meloni renitente. Che è stata appena consigliata anche da Mario Monti di guardarsi da un alleato troppo poco interessato al successo di un governo da lui non presieduto. 

A parte tuttavia i consigli di Monti, che saranno magari uguali a quelli di Mario Draghi, la candidata a Palazzo Chigi sa di potersi trarre d’impaccio al momento opportuno con i limiti imposti alla sua discrezionalità dall’articolo 92 della Costituzione nel passaggio in cui dice che i ministri sono nominati dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio.

Titolo di Repubblica di oggi
Titolo di Repubblica di ieri

Se a Mattarella non sembrerà opportuno nominare Salvini, appunto, ministro dell’Interno perché ancora  sotto processo per il suo precedente passaggio in quel dicastero, vi sarà ben poco da fare. Escludo che la Meloni torni, come quasi cinque anni fa, a protestare e minacciare d’impeachment il presidente della Repubblica che aveva rifiutato a Giuseppe Conte la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Non è proprio aria, diciamo così. Allora peraltro neppure Salvini, già vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno in pectore, si dissociò dall’assalto a Mattarella compiuto sia dalla Meloni sia da Luigi Di Maio.  Insomma, non vedo, non avverto tragedie, per quanti sforzi stia facendo in questi giorni la Repubblica di carta di drammatizzare questo passaggio sparando titoli come pallettoni. 

L’altro cantiere aperto è quello non del governo, ma dell’opposizione al centrodestra uscito vincente dalle urne. Qui il lavoro procede più alla svelta, potendo prescindere dall’insediamento delle Camere e dal resto. Ma è un cantiere, a ben guardare, più di demolizione che di costruzione, riguardante in particolare un Pd curiosamente estratto vivo dalle macerie elettorali, per quanto ferito, ma dato più morto del MoVimento 5 Stelle che invece ha raccolto meno voti e seggi parlamentari. E questo solo perché -credo in un eccesso di masochismo- lo stesso Enrico Letta ha voluto drammatizzare la situazione offrendosi praticamente come capro espiatorio alla pretesa di Giuseppe Conte di guidare lui l’opposizione da sinistra. 

Massimo D’Alema al Fatto Quotidiano
Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Il buon Pier Luigi Bersani, sempre prodigo di immagini paradossali, come le bambole da pettinare, i giaguari da smacchiare, le mucche da allontanare dai corridoi e via scherzando, se n’è appena uscito con una intervista al Corriere della Sera in cui chiede, disperato, a compagni e amici di “non lasciare ai 5 Stelle la storia della sinistra”. Che dovrebbe significare non inseguirli, non mettersi al loro servizio,  non farsi commissariare. Ma ciò è proprio quello che anche Bersani chiede, in coincidenza peraltro con una intervista di Massimo D’Alema al Fatto Quotidiano, sostenendo il  recupero del rapporto con un Conte indisponibile a trattare con l’attuale gruppo dirigente del Nazareno. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Un’occhiata nel guardaroba multicolore di Giorgia Meloni

Titolo del Dubbio

Fedele alla favola del diavolo che fa la pentola e si scorda il coperchio, Giorgia Meloni a poco più di una settimana trascorsa dalla vittoria elettorale del 25 settembre ha spiazzato un bel pò di avversari, e  persino amici. Chi la immaginava, anzi desiderava vestita di nero per combatterla meglio, come una caricatura femminile del fascismo che che fu, se l’è trovata vestita di tutti i colori possibili: a cominciare dal rosso dipinto sulle labbra agli indumenti, per finire al celeste, al rosa, al verde. Come quello, misto al giallo, dei coltivatori diretti che l’hanno accolta a Milano con l’entusiasmo rivolto sino a pochi giorni prima dai leghisti e, ancor prima, dai democristiani della lontana, cosiddetta prima Repubblica, quando quel pubblico lì era il principale serbatoio elettorale e persino valoriale dello scudo crociato. Si è tornata a respirare, in quell’incontro davanti al Castello sforzesco, la cultura popolare sostituita troppo a lungo da quella assai diversa, direi opposta del populismo. 

Maurizio Landini, il capo della Cgil assaltata non più tardi di un anno fa nella sua sede centrale dal pubblico “parafascista” dirottato da una manifestazione in Piazza del Popolo, a Roma, col tono conciliante che ha assunto da qualche tempo come se una dieta lo avesse liberato anche dall’estremismo parolaio che faceva impazzire Sergio Marchionne, ha mostrato di morire dalla voglia di confrontarsi col governo che “Giorgia” sta allestendo ben prima dell’insediamento delle Camere, delle consultazioni del capo dello Stato e del conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio. 

Mario Draghi -cui “la signora”, come la chiama prudentemente Silvio Berlusconi, ha praticato una lunga e costante opposizione salvo che in politica estera, dove è stata più atlantista e antiputiniana di tanta parte della maggioranza- la sommerge direttamente e indirettamente di informazioni e -credo- anche consigli. E deve sudare le proverbiali sette camicie per smentire o ridimensionare la rappresentazione che se ne fa come di un lord protettore di chi è destinata a succedergli. 

Statene certi, la prima parola per la promozione di Draghi a segretario generale della Nato, quando ne matureranno le condizioni, non più tardi dell’anno prossimo, si alzerà alta e forte proprio dalla Meloni a Palazzo Chigi.  La seconda forse dal campo avverso, cioè da Mosca, dove Putin si è ormai così infognato nella guerra all’Ucraina che spera forse di sopravviverle politicamente e umanamente con l’aiuto più di uno come Draghi che  di uno come quel Medvdev che al Cremlino sogna solo di succedergli. 

Sergio Mattarella, il traghettatore

La politica è una bestiaccia in tutte le latitudini. Più la si prende sul serio e più ti delude. Più la corteggi e più ti spiazza. Più la studi e meno la capisci. Più presto sali in alto e più presto cadi in basso. Più cerchi di staccartene e più ne rimani coinvolto, come ha imparato l’anno scorso anche Sergio Mattarella sprecando -temo-  un sacco di soldi in un trasloco interrotto, che in tanti -a dire il vero- gli avevamo francamente e giustamente  sconsigliato. Ora tocca a lui, per fortuna, gestire questa sorprendente e inesplorata transizione repubblicana, anche di genere. 

Pubblicato sul Dubbio

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